LA RADAR

Agenzia Giornalistica

la radar

DAL LIBRO "RIBELLE E STATISTA ALBERTINO MARCORA", edizioni Ebe, 1986

COME NACQUE LA RADAR di Giovanni Di Capua

Era il marzo 1958. C'era un gran fermento, in casa democristiana: le imminenti elezioni politiche del 25 maggio stavano ponendo seri problemi. Per la formazione delle liste delle candidature, naturalmente. Ma in non minor misura, per la definizione della linea politica.
La seconda legislatura si andava spegnendo poco gloriosamente. Uno degli uomini migliori della Dc degasperiana, Adone Zoli, un antifascista senza macchia, si vedeva costretto a guidare un monocolore democristiano che sopravviveva grazie all'apporto parlamentare delle destre, missini compresi, benché rifiutasse i loro voti "sgraditi".
La crisi del centrismo, scoppiata il 7 giugno 1953 con la bocciatura della legge maggioritaria, ma preesistente a quella data — tanto che i due turni amministrativi del 1951 e del 1952 erano serviti, nelle intenzioni delle destre, a quel tempo piuttosto forti e protette anche da importanti autorità ecclesiastiche a fungere da prova generale delle elezioni politiche - stava giungendo alle conclusioni più negative e pericolose.

Nella Dc erano pochi - diciamo pochissimi - a sostenere l'opportunità di leggere i mutamenti in atto nel sistema politico con occhi più accorti: non inclinando a destra, come sembrava più facile e comodo fare; ma prendendo atto della realtà dell'autonomia socialista. Un processo non interamente compiuto, e tuttavia reale, che sollecitava una nuova forma mentis nella politica nazionale, prima ancora che nuove al-leanze: l'abbandono di pregiudiziali ideologi-che e l'inaugurazione di un nuovo corso, nel quale fosse la politica - e non la religione o l'ideologismo o altro - a stabilire i confini fra i partiti, quelli invalicabili e quelli mobili.
Quella sparuta pattuglia di democristiani più aperti al nuovo, più disponibili a considerare i segni delle revisioni in atto nella sinistra italiana si riconduceva, quasi esclusivamente, alla Base, i giovani che, in varie città italiane, avevano da tempo posto la questione socialista al centro del dibattito politico, ricevendone, per la verità, più impopolarità e persino insulti che onori, se non altro quelli dovuti alla limpidezza delle loro tesi, anche se i più non l'accoglievano.
Era duro, fare la sinistra democristiana, a quei tempi. Si rischiava incomprensione. Ma anche molto di più: di non trovare occupazione, per esempio. Vivere in una zona rossa, dove vigevano gli stessi metodi e la stessa mentalità - poniamo - del sottobosco governativo siciliano di oggi - era difficile per un democristiano. Ma era quasi impossibile per un democristiano di sinistra, respinto dal potere rosso come dai capetti de, preoccupati di perdere l'immagine dell ‘intransigenza anticomunista, che costituiva una obbiettiva posizione di rendita politica. Chi scrive, era in quella condizione, di difficoltà, persino esistenziale, estrema.
L'attività politica non era clandestina solo perché riusciva a svolgerla, nel movimento giovanile regionale, in maniera del tutto autonoma rispetto ai maggiorenti del partito.
Si trattava, però, di politica seria, di confronti con gli altri partiti, anche coi comunisti, non di organizzativismo spicciolo, molto caro ai dirigenti dc in quel periodo.
La base - come diceva, ed esponeva in gustosissime vignette, Nicola Pistelli - era, in fondo, un assieme di "tribù sparse". Io stavo nella tribù di Reggio Emilia, città sanguigna e tuttavia colta, dove il potere fanfaniano stentava a contrapporsi allo strapotere comunista. E dove il dossettismo, che aveva fatto scuola a quasi tutti i democristiani locali, era, però, ormai dimenticato, se non abiurato proprio presso chi se n'era avvalso per assumere un minimo di statura politica: localmente, s'intende.
Quelle "tribù sparse" erano tenute assieme da Albertino. Il leader, a dire il vero, era Giovanni Galloni. Con lui, del resto, era nato il mio primo collegamento, nel 1949, a Bologna, quando la sinistra democristiana era più clericale della destra e si era in pochi a collocarsi su posizioni francamente aperte, sul terreno delle scelte politiche, ovviamente, non servendo né servendosi delle direttive ecclesiastiche. Ma Marcora era l'organizzatore più tenace. Era il tesoriere, anche: perché nessun altro aveva pratica di certe cose.
I modesti finanziamenti si concentravano essenzialmente nelle attività milanesi e lombarde. Al resto delle "tribù" andava qualche spicciolo contributo, sufficiente, però, a svolgere una qualche attività, ad essere presenti - con scritti e convegni - nel dibattito: che di solito s'imponevano anche al rispetto di avversari.
Albertino, più anziano di qualche anno, con la sua saggezza contadina ammoniva, peraltro, a saper tener conto del danaro, specie quando ce n'era un po’ perché, quando non ve ne fosse più, sarebbero stati tempi duri per tutti. E intanto seminava, Come?
L'investimento maggiore l'aveva fatto nella democrazia cristiana milanese. Una progressiva affermazione nella dc della "capitale morale" doveva necessariamente tradursi - a suo parere - in una affermazione in campo nazionale. Anche l'azione nella regione lombarda risultava meticolosa, continua, metodica. L'area di riferimento principale erano i vecchi compagni partigiani, attorno ai quali egli tesseva una ragnatela sempre più fitta di rapporti, nei quali ovviamente pesava l'amicizia con Enrico Mattei ed "Alberto" Cefis.
Per le "tribù sparse", invece, composte di giovani e giovanissimi, la solidarietà partigiana sapeva di mito e, dunque, valevano altre regole. I giornaletti ed i convegni furono le mosse vincenti di Albertino.
A Firenze usciva da tempo Politica, il più alto esempio di lucidità politica nel laicato cattolico per una lunga fase. Marcora volle anche per Milano qualcosa di valido. Sotto la sua spinta nacque Stato Democratico, che svolse una importante funzione ovunque, ma soprattutto nell'area metropolitana meneghina.
Occorrevano, però, altri strumenti. Soprattutto, era necessario accostarsi a realtà per una qualche ragione non avvicinate dalla democrazia cristiana ufficiale. Si dette così vita alla Sias, un servizio di articoli e commenti, a carattere settimanale, che veniva inviato gratuitamente alla quasi totalità dei periodici cattolici locali, solitamente poveri di commentatori. L'iniziativa ebbe un successo enorme. Non c'era foglietto cattolico locale che non saccheggiasse i bollettini della Sias, prendendo così ad occuparsi di politica in maniera nuova, legata ai problemi che vi venivano proposti, piuttosto che ai temi più strettamente politici, quali l'apertura a sinistra, ch'era un tabù anche sulla stampa nazionale più qualificata.
Quell'esperienza fece a lungo riflettere Albertino sulla utilità di altri strumenti attraverso i quali fare conoscere ed apprezzare le posizioni della base, senza le deformazioni di comodo amplificate dalla stampa avversaria, specialmente di quella facente capo alla segreteria nazionale. L'onorevole Fanfani si predisponeva a scendere personalmente in campo nella gestione del potere pubblico. Da quando aveva conquistato piazza del Gesù, il segretario della Dc s'era preoccupato di consolidare le posizioni della sua corrente, Iniziativa Democratica, ovunque con un accanimento che si era ripercosso negativamente soprattutto nei confronti della Base che aveva le posizioni localmente più deboli.
La Dc di Milano, tuttavia, anche per Fanfani, l’autorità centrale stentava a dispiegarsi. La Dc milanese era ormai troppo forte organizzativamente, per essere facilmente addomesticata. D'altra parte, le novità che si andavano addensando nella politica nazionale, fronte socialista, si concentravano attorno a Palazzo Marino e alla provincia di Milano, sicché non era pensabile che Fanfani potesse insistere oltre un certo limite sulle sue chiusure verso il Psi, benché fosse in questa coadiuvato da una rigorosa intransigenza dell’arcivescovo di Milano, monsignor Montini.
Al Consiglio Nazionale di Vallombrosa, del luglio 1957, a sorpresa Fanfani s'era mostrato disponibile ad aprire un dialogo con la Base per poter saggiare, all'esterno, quei discorsi che quei giovani andavano sviluppando dappertutto in Italia.
Dopo aver per tanti anni negato che potesse porsi una questione socialista, il segretario democristiano invitò la classe dirigente del partito a rendere conto che l'Europa era in movimento, che la socialdemocrazia era in decisa competizione con i cristiano sociali per la leadership nazionale, che problemi di concorrenzialità democratica insorgevano anche altrove e che, dunque, era giunto il momento, per la Dc italiana, di ragionare più alto, in termini europei, anche per quanto riguardava il movimento socialista.
Non c'era, nell'iniziativa improvvisa di Fanfani, un riferimento diretto al Psi di Pietro Nenni, come si è lasciato dire più tardi. Tuttavia, quella riconsiderazione del quadro politico europeo e, indirettamente, nazionale, introducendo nuovi elementi di riflessione, inaugurava indubbiamente anche un nuovo clima di rapporti interni alla democrazia cristiana.
Fanfani era intenzionato a stabilire un nuovo rapporto con la sola base. Con Galloni e Pistelli, in particolare. Ma, registrate forti resistenze nel gruppo dirigente che si raccoglieva attorno a lui, decise di fare entrare in direzione - che era allora esclusivamente espressione della maggioranza - i rappresentanti delle varie correnti: la sinistra sindacale di forze sociali, i centristi popolari di Scelba e Gonella, la destra di Andreotti, chiamata primavera.
Questa apertura a tutte le tendenze interne, tornò sgradita ai maggiorenti di iniziativa democratica. Nelle votazioni a scrutinio segreto su quelle "novità", si scaricarono numerosissime schede bianche. S'era in tal modo delineato il nucleo costituente di quella dissidenza che, un anno e mezzo più tardi, avrebbe organizzato la rivolta della Domus Mariae e la formazione della corrente dorotea. Marcora seppe giocare bene le sue carte di esponente della Dc della "capitale morale". Anziché Galloni, in direzione, a rappresentare la base, entrò Luigi Granelli, il direttore di Stato Democratico, quasi a ristabilire un equilibrio fra, le "tribù sparse", i cui riferimenti intellettuali principali erano a Firenze e a Roma.
Albertino non ne fece, però, una questione di orgoglio meneghino soddisfatto. Comprese che quella battaglia vinta aveva senso se il rapporto con tutte le "tribù" fosse stato sempre leale, aperto, non regionalistico. E capi che a poco sarebbe valsa una semplice presenza in dire-zione del partito, benché validissima, se essa fosse rimasta isolata dal giro politico romano, dalle stesse conoscenze degli accadimenti nella capitale ufficiale e capitale della politica.
Ora si poneva il problema di fare tentare la carta elettorale a giovani della base o a questa collegati. In talune circoscrizioni, molto limitate, il problema non era difficilissimi.
In altre, però, sembrava proibitivo.
Occorreva stabilire rapporti coi candidati di altri gruppi o senza accasamenti in correnti, per non mandare disperso il voto preferenziale dei basisti e per effettuare una prima verifica delle capacità d'attrazione elettorale di questa nuova leva politica, capace di una qualche affermazione nel partito ma sostanzialmente tutta ancora da sperimentare all'esterno.
La lotta era davvero dura.
Perché, nei confronti della base e dei suoi possibili candidati, era tutto un incrociarsi di veti: da quelli ecclesiastici - vittima più illustre, un caso inaudito proprio Luigi Granelli, a Milano - a quelli democristiani, alimentati non solo dalla destra, ma anche dai clericali di sinistra, fossero essi ex dossettiani o esponenti del sindacalismo bianco.
Al Fanfani che convocava una assemblea di ben 102 "saggi" per predisporre un programma elettorale da affidare al giudizio degli elettori, la base contrapponeva la proposta di una scelta politica intimamente connessa ad un programma di rinnovamento politico ed economico, considerando impropria, equivoca ed anche pericolosa la semplice scommessa su un programma elettorale, quasi che la Dc potesse davvero aspirare a riconquistare la maggioranza assoluta in parlamento, come, pure, nel gruppo dirigente di iniziativa democratica, si riteneva non impossibile.
Cori una direzione che si riuniva poco frequentemente, coi conti aperti con le autorità cattoliche milanesi, con nomi lombardi conosciuti in ambito locale, ma non notissimi nella stessa Dc nazionale, c'era da evitare il rischio dell'isolamento o dell'eccessivo orgoglio localistico.
Marcora avvertì questi pericoli.
Calcolò che un migliore rapporto con gli altri esponenti delle "tribù sparse" sarebbe risultato proficuo per tutti: per un più compatto lavoro politico della base ed una maggiore espansione delle idee da questa elaborate, specie in previsione di una prima rappresentanza in parlamento.
Albertino prese così l'iniziativa di dar vita ad una agenzia di stampa a Roma. In quella fase, la politica era moltissimo legata alle valutazioni della stampa maggiore.
La fama di Giovanni Spadolini, per esempio, nacque allora: le sue direzioni, al Resto del carlino e al Corriere della sera, gli permisero di consolidare prestigio professionale e rapporti politici, sino a portarlo, anni più tardi, al laticlavio in rappresentanza della città di Milano. La politica sui giornali era fatta di editoriali, ma soprattutto di "pastoni", nei quali abili giornalisti utilizzavano le informazioni e le note delle agenzie di stampa facenti capo a questo o quel personaggio politico, per poi farne leva per le proprie, personali valutazioni, che tuttavia trovavano udienza nella classe politica, anche in quella di opposizione.
L'idea di Marcora fu di usare lo strumento dell'agenzia di stampa per fare conoscere la base fuori dell'ambito democristiano, come la Sias, coi suoi servizi molto curati e apparentemente neutri politicamente, era riuscita a far discutere il mondo cattolico sui problemi del presente, pur senza fornire una indicazione preferenziale per questo o quel gruppo politico democristiano.
Per dar corpo a quell'idea, non c'erano, però, gli uomini adeguati. Nessuno degli esponenti delle "tribù sparse", e meno che mai un milanese, mostrava di possedere capacità tecniche e professionali necessarie ad un simile impegno.
Nessuno, soprattutto, sembrava disposto a correre il rischio di trasferirsi a Roma a giocare un'avventura che nel migliore dei casi, avrebbe segnato, per chi avesse accettato di esporsi, una contestuale rinuncia a far politica per sé: chiunque fosse stato tanto spericolato da andare a Roma a tentare d'inserirsi laddove erano in difficoltà sperimentati giornalisti parlamentari, automaticamente si vocava a tagliarsi fuori da un qualsiasi, anche ipotetico cursus honorum; ed a rischiare l'espulsione dalla Dc, se le cose si fossero messe male, giacché, allora, il dissenso autentico si pagava col decreto di cacciata dalla democrazia cristiana.
Andare a scrivere a Roma di apertura ai socialisti, di rilettura delle diverse esperienze democristiane, di abbandono di integrismi e ideologismi che bloccavano una crescita politica, prima ancora che democratica del laicato cattolico, non era impresa comoda.
Ma, se si voleva interrompere il circolo vizioso di una stampa che raccoglieva e rilanciava le "veline" dei grandi personaggi, occupando tutto lo spazio disponibile di quello che doveva essere un dibattito politico generale, un po’ di incoscienza occorreva pure.
Fu così che Marcora mi chiamò, un giorno che stavo scrivendo, nella sede di via Sant'Eufemia, un articolo per la Sias, per chiedermi se me la sentivo di andare a rischiare di fare il kamikaze a Roma, dove avevo la ventura di essere il responsabile organizzativo nazionale del movimento giovanile :aveva deciso di utilizzarmi per un compito difficilissimo. Le probabilità maggiori, anzi , erano di insuccesso. Ma, se avessi stomaco, nervi e volontà a posto, forse avrei contribuito ad aprire una nuova strada. A Roma avrei dovuto operare in stretta intesa con Galloni, che già tentava - ma con scarsi risultati - di fare penetrare le posizioni attraverso i canali di altre agenzie che si proclamavano "vicine" alla sinistra democristiana.
Partii da Milano, ai primi di aprile del 1958, col solo vestito che aveva indosso, qualche i biancheria e trecentomila lire di Albertino per le spese emergenti. Se avessi incontrato difficoltà insormontabili, me ne sarei tornato subito a Reggio Emilia e a fare la navetta tra Reggio e Milano. Di qui lo scarno bagaglio Se le difficoltà fossero state un tantino meglio affrontabili, mi sarei regolato sui passi successivi da compiere.
Giunsi a Roma quasi all'alba del 13 aprile e andai a casa di Giovanni Galloni, abitava a Montesacro. Lo trovai in vestaglia, al suo tavolo di lavoro, che correggeva suo libro di diritto agrario. Per il resto della mattinata discutemmo su cosa cercare di fare per impiantare la nuova agenzia. L’intesa con Marcora è che mi sarei affidato a Galloni per l’impostazione da dare all’agenzia tenuto conto che era stato stipulato un accordo con un altro giornalista residente a Roma e pratico di certi meccanismi. Quest'ultimo mi avrebbe aiutato a trovare una sede ed a depositare in tribunale una testata giornalistica, nonché ad introdurmi in qualche ambiente giornalistico.
Al resto avrei dovuto pensare io. Come dovesse essere confezionato il nuovo prodotto, con quali strumenti concreti e tecnici, con quale personale, con quale sistema di distribuzione, con quali relazioni in parlamento, avrei dovuto provvedere personalmente. In questo sarei stato solo.
Con Galloni l'accordo fu immediato. Avendolo avuto, nove anni prima, come unico riferimento politico credibile a Bologna, per me si trattava, anche dopo tante esperienze vissute assieme, specie in occasione dei congressi della Dc e dei convegni di corrente, di una lezione di vita meritevole d'ogni più alta considerazione. Al di là della stessa politica.
Diversa, fu, invece, la situazione concreta che mi trovai dinanzi, quando si trattò di dar vita all'agenzia. Il giornalista romano che aveva costruito gli accordi con Marcora e Galloni, aveva mantenuto quasi tutti i patti.
Aveva, soprattutto provveduto a trovare una sede per l'agenzia, all'ultimo piano di un palazzo di Via della Mercede, dove erano tutti gli uffici di rappresentanza della stampa estera: una sede prestigiosa che, a dire il vero, tornò di grande utilità nei primi mesi della mia nuova attività. Solo che quel collega, una agenzia l'aveva già costituita: si chiamava Zeta, ne aveva già pubblicati alcuni numeri, aveva richiesto abbonamenti in diverse direzioni.
Ritenni che non fosse conveniente, per un gruppo che andava a tentare di qualificarsi ex novo, per non essere più tributaria di canali infarinativi tutt'altro che coerenti e dalle battaglie politiche affini a quelle che portavamo avanti, servirsi di una agenzia che aveva già visto la luce, era stata raccolta da qualche commentatore, aveva dischiuso rapporti estranei alla politica di cui mi sfuggivano contorni e controlli.
Decisi così di fare di testa mia. Espressi a Galloni le mie perplessità ed avvertii telefonicamente Albertino che non aveva senso andarsi a sostituire nella direzione di una agenzia che aveva iniziato le pubblicazioni da mena di un mese ed i cui titoli di proprietà io ignoravo. Ambedue accolsero la mia protesta e mi confortarono nel cercare un'altra soluzione.
Utilizzando i locali - un salone e due stanzette ricavate in un vecchio terrazzo con sovraelevazione chiaramente abusiva e battute da un sole implacabile già in primavera, - andai a comprarmi alcuni mobili da un rigattiere di Via del Governo Vecchio, noleggiai una macchina da scrivere Olivetti da tavolo ed un duplicatore Gestetner, acquistai moltissime risme di carta per ciclostile e cercai, con un annuncio economico, una dattilografa che costasse poco. Mi procurai i documenti di legge, andai alla associazione stampa romana per chiedere consigli, mi recai da un notaio per le autentiche dovute, depositai presso la cancelleria del tribunale una nuova testata: l'agenzia giornalistica Radar, a carattere politico, economico, finanziario. Il nome l'avevo tratto dall'omonimo strumento a significare un'attitudine alla ricerca, all'avvista-mento di situazioni impreviste o sconosciute ovvero da altri non segnalati. Mia era la proprietà. Mia la responsabilità. Avevo fatto tutto coi soldi che m'aveva dato, quasi un mese avanti Albertino a Milano.
Il primo numero della Radar coincise con la presa di potere di de Gaulle, in Francia: il 14 maggio 1958. I confronti vennero facili. Una nota di Galloni apriva il numero, assieme ad una lunga intervista di Luigi Granelli sui compiti postelettorali della D c. Io m'andai ad ascoltare la conferenza stampa di Togliatti alla stampa estera, e quel mio primo commento fu ripreso nel numero successivo di Rinascita dove, assieme agli inevitabili rilievi critici, si dava, però, atto della novità e della serietà del giudizio che un democristiano dava del Pci.
Il successo della Radar, immediato, non fu, tuttavia, dovuto a questo episodio. Si era alla vigilia delle elezioni politiche. Sulle intenzioni di Fanfani venivano manifestate riserve, dentro e fuori la Dc. La nostra critica, costruttiva, era severa. Quella dei suoi potenti avversari, demo-cristiani e non, estremamente intransigente. Per noi Fanfani era su posizioni monche e, dunque, fragili: aveva voluto un ponderoso programma, a tratti anche innovativo, ma non dicendo agli elettori come e con chi l'avrebbe poi realizzato. Ponendosi, invece, solo alla guida di una riscossa per la conquista personale della presidenza del consiglio, si autoesponeva inoltre a rischi gravissimi, elettorali (che non vi furono, perché le elezioni premiarono la Dc e politici (che puntualmente arrivarono). Gli oppositori di Fanfani temevano sue fughe in avanti. In direzione di Nenni, ma non erano queste le intenzioni del segretario democristiano.
In particolare, don Luigi Sturzo, columnist del Giornale d'Italia e della catena dei giornali confindustriali locali, giudicava Fanfani prossimo ad allearsi con Nenni (il che non era vero). Avendo visto la nuova agenzia, la Radar, così decisa nel propugnare nuovi rapporti fra demo-cristiani e socialisti, don Sturzo - indotto probabilmente in errore da qualcuno interessato alla confusione - pensò che questa facesse capo a Fanfani. E cominciò così a rintuzzare tutte le argomentazioni che Galloni ed io adducevamo sull'agenzia per motivare una nuova politica generale.
Bastò l'attenzione fortemente critica rivolta da don Sturzo alla Radar, per richiamare su di essa la curiosità dell'intera stampa nazionale. Mi trovai, così obbligato a fronteggiare attacchi d'ogni specie, ma anche ad entrare d'acchito nell'ambito del giornalismo parlamentare, perché tutti erano curiosi di conoscere il responsabile di tanto improvviso sommovimento. La stampa estera scopri, forse per la prima volta, l'esistenza di una sinistra democristiana che si chiamava Base ed i nomi dei suoi esponenti, che io avevo cura di sottolineare - con interviste dirette o riprese di loro articoli su Politica e Stato Democratico o su giornaletti locali — sulla Radar, sicché tutte le mattine, e per moltissimo tempo, le posizioni delle sinistra democristiana furono sulle prime pagine dei principali quotidiani nazionali e su qualcuno straniero.
Il successo definitivo - e rapidissimo - fu consacrato, alla vigilia delle elezioni del 25 maggio, da un passo falso de Il Tempo, il quotidiano di Renato Angiolillo. A tre giorni dal voto, quel giornale pubblicò le liste dei candidati democristiani da votare e le liste "di proscrizione" dei candidati della sinistra democristiana, da non votare. Dopo aver duramente protestato per simile condotta, avvertii sulla Radar che quelle liste erano, tra l'altro, da considerarsi, oltre che arbitrarie, incomplete. Si sarebbe fatta carico la stessa Radar di indicare, a tempo debito, i nomi dei candidati davvero sostenuti dalla base. Cosa che puntualmente fu fatta il giorno delle votazioni, per dimostrare la verità interna alla Dc e per non danneggiare i candidati della sinistra democristiana nella organizzazione dei voti di preferenza. Per Il Tempo fu una lezione di stile, ma anche di giornalismo, che tutti gli altri organi di stampa accolsero con una sorta di bandiera. Enrico Mattei, allora notista de La Nazione e tra i più rispettati nomi del giornalismo italiano, prese a parlare di giovanotti della Base e dette sempre credito alle tesi della Radar pur cercando di confutarle a sostegno di una anacronistica posizione centrista.
In meno di due settimane s'era riusciti a portare la Base e sui suoi uomini all’attenzione del mondo politico e giornalistico .Galloni ed io ci alternavamo nel redigere le note con 'intesa che, occorrendo, avremmo attribuito a lui quelle non sgradite al gruppo democristiano o, comunque, non eccessive nei giudizi e nelle indicazioni, lasciando che la responsabilità delle altre ricadesse su di me, che nel frattempo avevo evitato di riprendere la tessera del partito ; la scadenza del tesseramento era fissato in quei mesi — onde cautelarci nel caso di improvvisi provvedimenti Cosa che si sarebbe, in effetti, registrata-non però sotto la segreteria Fanfani, ma di Moro, quando il presidente Segni, criticato per aver disdetto, nel settembre un viaggio di stato in Canada così da poter seguire personalmente l'andamento del congresso provinciale di Sassari, in vista di quello nazionale di Firenze, pretese - e fece annunciare ai giornali amici - la mia espulsione dalla Democrazia Cristiana. Cosa impossibile perché da un anno e mezzo avevo evitato il rinnovo dell'iscrizione - che datava dall'agosto 1943, malgrado la mia giovanissima età -alla democrazia cristiana, giacché avevo inteso evitare che, come era avvenuto nel caso del quindicinale Prospettive, costretto alla chiusura per l'espulsione del partito del suo direttore, il comandante partigiano Aristide Marchetti, più tardi reintegrato ed eletto anche senatore, non solo venisse meno una voce libera, ma si potesse correre il rischio di ricominciare un cammino politico tanto aspro e, per giunta, in una fase delicatissima dei rapporti fra i partiti democratici.
La sola esperienza iniziale della Radar era, comunque, valsa a fare conoscere idee, proposte e uomini della base, un universo composito e sommerso che rischiava di restare ancora per molto racchiuso negli ovattati dibattiti interni alla Dc, senza misurarsi con le altre forze politiche, se non in talune realtà locali e, soprattutto, senza avere modo di farsi conoscere dal grande pubblico, almeno da quello abituato alla lettura delle pagine politiche dei quotidiani.
Non avevo dovuto fare karakiri. Anzi, tutta la sinistra democristiana aveva potuto tirare su un respiro di sollievo. Fiorirono addirittura le imitazioni. Nelle stanze di piazza del Gesù fu inventata una nuova testata giornalistica per proiettare le posizioni di settori della sinistra sindacale contrari all'inaugurazione di nuovi rapporti coi socialisti. Ovviamente, l'operazione servi a raccogliere un altro tipo di sinistra nella Dc, quella che Nicola Pistelli avrebbe bollato come "sinistra di cartone", sempre pronta a rivendicare posizioni di potere ma sulle medesime posizioni politiche del principe di turno, non, però, ad allentare la presa della Radar sull'opinione della classe giornalistica e parlamentare e, attraverso di essa, sull'opinione pubblica.
In periferia, nelle zone dove la base era più forte e meglio attrezzata, presero a nascere testate locali che riprendevano quella della Radar (e, quasi sempre, le note romane) aggiungendovi l'aggettivo della regione o della città in cui esse proliferavano.
Dall'avventura quasi senza sbocco, si era passati ad una operazione di irradiazione politica ed anche organizzativa capillare. Non a caso gli uffici romani della Radar divennero il riferimento prevalente dei basisti di tutta Italia.
Marcora poteva considerarsi ultrasoddisfatto. Aveva realizzato il sogno di aver fatto uscire dal ghetto meneghino la sua "tribù", di aver visto dilagare i nomi dei suoi puledri più dotati sulla stampa nazionale, aveva consumato poco danaro per una operazione così vasta e penetrante, giacché i suoi contributi alla Radar sempre parsimoniosi e già nel 1959 diventati episodici, erano davvero pochissima cosa rispetto al necessario ed a quanto si spendeva per un minimo di organizzazione correntizia da parte di altri.
Anche il sodalizio umano con Albertino divenne solido. Solo l'attaccamento ad un'idea, e non ad un obiettivo di potere, peraltro quasi improbabile dati i tempi e le situazioni, aveva consentito di immaginare un'operazione politico-giornalistica diventata in breve così penetrante, efficace e - sia detto senza falsa modestia - temuta ma rispettata anche da avversari. Nella sua lunga storia, la Radar non ha mai, infatti, avuto una sola smentita, una sola richiesta di precisazione.
Avemmo fortuna? Certamente. Fummo professionalmente abili? Non dobbiamo negarlo, per pudore. Il punto è, però, un altro. Con scarsissimi mezzi e un grande amore verso una democrazia cristiana meno avara di dibattiti e più viva nel confronto con le altre forze politiche, eravamo riusciti laddove pareva impossibile.
Un'avventura, dunque, che ha molti protagonisti, ma un solo progenitore: Albertino. Il quale faceva fatica ad accettare da me, di origini meridionali, una capacità di iniziativa e di lavoro che avrebbe voluto piuttosto espressa dai suoi amici lombardi, e che, tuttavia, sapeva riconoscere i meriti altrui, a ricercare il contributo delle altrui intelligenze. Lui che, pure, avrebbe toccato vette politiche ancora più prestigiose, se quel terribile male non lo avesse troppo anticipatamente sottratto ai suoi cari, ai suoi amici, alla politica nazionale.