innovatore e “martire” della democrazia
Anche Moro partecipò al gruppo dossettiano, ma la sua posizione non era di primo piano, anche perché a differenza degli altri era di origine meridionale e gli studi li aveva compiuti non all’Università Cattolica ma a Bari e Roma, dove era stato Presidente nazionale della FUCI (sostituito in seguito da Giulio Andreotti) e poi dei Laureati cattolici. Costituente, si era distinto per l’alta dottrina dei suoi interventi (aveva quasi subito ottenuto la cattedra di Filosofia del diritto), e nei Governi De Gasperi aveva occupato incarichi minori, fra cui quello di Sottosegretario agli Esteri, rivelando un’attenzione alle questioni internazionali che lo avrebbe sempre accompagnato.
Dal 1954 in poi egli venne considerato un fedele seguace di Fanfani, occupando cariche di partito e ministeriali, ma senza distinguersi particolarmente. Il suo nome venne fuori dopo la rivolta dorotea del 1959, quando fu designato a prendere il posto dello spodestato leader aretino alla Segreteria della DC. Teoricamente i dorotei erano il gruppo che con più decisione si opponeva al centrosinistra, facendo eco a preoccupazioni diffuse fra le forze conservatrici politiche ed ecclesiali (per dire, accadde in quegli anni che il Sindaco democristiano di Genova aprisse un’interlocuzione con il PSI, e che per questo il suo Vescovo, il cardinale Giuseppe Siri, gli inviasse i “sacri moniti”, ossia i preliminari della scomunica): Moro tuttavia, dimostrando lucidità politica temperata da un acuto senso del possibile, una volta che il sanguinoso fallimento del Governo Tambroni nel luglio del 1960 ebbe dimostrata l’impossibilità per la DC di coltivare alleanze con la destra missina e monarchica, assecondò il tentativo di Fanfani e delle sinistre interne di aprire contatti con il PSI, arrivando nel 1961 alla formazione del Governo detto delle “convergenze parallele”.
Con questa inusitata espressione Moro intendeva dire che le strade di DC e PSI, per quanto non ancora unite, stavano sempre più convergendo in un progetto politico comune. Peraltro, nel corso del Congresso della DC a Napoli nel 1962, di cui fu mattatore assoluto, Moro, con una torrenziale relazione, aprì di fatto la strada al centrosinistra vincendo l’esitazione di gran parte dei dorotei e dei gruppi di destra, ottenendo poi un indiretto avallo da parte di Giovanni XXIII. L’arretramento elettorale della DC, la crescente insoddisfazione delle destre interne e della minoranza del PSI consigliarono che fosse direttamente il Segretario del Partito a sostituire Fanfani alla Presidenza del Consiglio, dando vita a un Gabinetto cui Pietro Nenni partecipò come Vicepresidente del Consiglio. Il progetto del primo centrosinistra era estremamente ambizioso, ponendosi l’obiettivo di introdurre riforme strutturali che permettessero di riequilibrare a favore dei lavoratori le ingiustizie sociali che avevano segnato l’Italia anche nella fase del boom economico. Istituzione delle Regioni, riforma sanitaria, riforma dei rapporti di lavoro, riforma del sistema pensionistico: queste erano le mete che il centrosinistra si proponeva attraverso il sistema dell’economia pianificata che aveva i suoi maggiori sostenitori in Saraceno e Lombardini sul versante democristiano e Giolitti e Lombardi su quello socialista.
Dopo le elezioni anticipate di quello stesso 1976, che furono definite dei “due vincitori”, poiché la DC aveva tenuto ma il PCI si era spinto al 35%, Moro lasciò definitivamente la guida del Governo e assunse la presidenza della DC, divenendo di fatto l’artefice del contrastato rapporto con i comunisti di Berlinguer. Egli stesso era ben conscio di quanto quella politica fosse contrastata all’interno della DC e da parte di settori imprenditoriali, ecclesiastici e militari, sostenuti dai Servizi segreti americani. Il rapimento e l’omicidio di Moro restano così una delle pagine più oscure della storia della Repubblica, poiché se la sciagurata “manovalanza” che di fatto compì il crimine è stata assicurata alla giustizia, le protezioni e le omissioni che lo resero possibile non sono mai state accertate. Di fatto, la democrazia italiana venne gravemente vulnerata da quel delitto, e la storia del Paese prese un corso diverso e peggiore.
Tuttavia, tale progetto, se riscontrava entusiasmi era anche foriero di preoccupazioni in ben individuati settori del mondo economico e di quello politico: la stessa DC, ora guidata dal doroteo Mariano Rumor, era tutt’altro che favorevole a riforme strutturali che avrebbero messo in discussione il suo sistema di potere, e la proposta del Ministro Fiorentino Sullo (un esponente della “Sinistra di Base” della DC) di una riforma del regime dei suoli che mettesse l’Italia al passo con gli altri Paesi europei era però tale da contrariare molti interessi latifondistici e speculativi. La crisi del Governo Moro aperta nel giugno 1964 dal Ministro doroteo Emilio Colombo ebbe risvolti oscuri, con la minaccia di un colpo di Stato contro scivolamenti a sinistra che avrebbe coinvolto alti ufficiali come il generale Giovanni De Lorenzo, capo dei servizi segreti. Non a caso, i due successivi Governi Moro ebbero un’impronta riformista assai meno marcata, deludendo molti sostenitori del centrosinistra. Lo stesso Moro dopo le elezioni del 1968 e gli sconvolgimenti indotti dalle lotte studentesche e sindacali passò di fatto a una sorta di opposizione interna alla DC avvertendo i suoi amici di come “il futuro non sia più del tutto nelle nostre mani”, criticando l’involuzione dorotea e legandosi alle correnti di sinistra come Forze Nuove. Il fallimento della prospettiva neocentrista della coppia Forlani-Andreotti portò prima all’accordo voluto da Moro per l’elezione di Fanfani alla Segreteria e poi, dopo le fallimentari elezioni del 1975, all’elezione alla guida del Partito del moroteo Benigno Zaccagnini, il quale vinse anche il successivo Congresso del 1976 dopo un teso confronto con Arnaldo Forlani, il candidato delle destre.