MARTINAZZOLI MINO

Scrittura oratoria ed educazione alla complessità in Martinazzoli politico e saggista.
Testo pubblicato sulla rivista quadrimestrale CRITICA DEL TESTO nel marzo 2020 Viella Libreria Editrice Roma Il testo ,qui liberamente condensato, è una raffinata indagine sulla scrittura(pubblica)di Martinazzoli da cui si ricavano elementi di interpretazione della storia culturale, sociale e soprattutto politica degli anni finali del secolo scorso. In realtà proprio in quegli anni si è avuta una netta degradazione del contenuto del Linguaggio, col decadere di una cultura umanistica che si tende oramai a dimenticare. Per questo l’argomento proposto è ancor più interessante e attuale. L’autore è Roberto Tagliani professore di Filologia Romanza all’Università Statale di Milano e Vice Presidente della FIVL (Federazione Italiana Volontari della Libertà).
Premessa
Può la filologia aiutarci a comprendere la modernità anche al di fuori dei suoi consueti confini di applicazione? Da questi interrogativi muove il nostro esercizio dedicato allo stile e all’opera di Mino Martinazzoli (1931-2011).
Martinazzoli politico: la centralità della parola
Figura tra le più enigmatiche e complesse della cosiddetta Prima Repubblica, Martinazzoli è stato uno dei protagonisti della vita politica e culturale dell’ultimo quarto del secolo scorso. Esponente di spicco della sinistra democristiana, più volte parlamentare e ministro, fu l’ultimo segretario della DC e il (ri)fondatore del Partito Popolare Italiano. Fu anche sindaco di Brescia e consigliere regionale della Lombardia. Insigne penalista, politico stimato e, a un tempo, fine intellettuale, acuto lettore di filosofi e poeti (sopra tutti, il favorito Manzoni, a cui si è sempre sentito legato, fin dal nome ( Mino è il diminutivo di Fermo, nome lombardo e manzoniano; la familiarità con l’autore è in parte legata all’incontro, negli anni degli studi universitari, con il direttore del Collegio Borromeo di Pavia, l’insigne manzonista Cesare Angelini). Martinazzoli ha lasciato una traccia profonda nella cultura cattolico democratica italiana del secondo Novecento.
Un tratto peculiare che tutti – sostenitori e detrattori – gli hanno sempre riconosciuto è la sua profonda confidenza con la parola: una confidenza legata, in primo luogo, alla professione forense, mai abbandonata nel corso dei lunghi anni di attività politica. In Parlamento come in Tribunale, Martinazzoli è sempre stato un oratore formidabile: alla lettura in pubblico preferiva di gran lunga l’actio mnemonica, agita con uno stile mite, riflessivo e pungente, sempre lucido e mai sovrabbondante. Così lo ricorda Pierluigi Castagnetti: Interveniva quasi sempre “a braccio”, era nota la sua riluttanza verso il testo scritto. Quando si trattava di mettere nero su bianco giudizi storici con il carattere della definitività cercava di sottrarsi, nonostante le sollecitazioni e le lusinghe di tanti amici, che ne apprezzavano “la grafia”. Preferiva la parola “parlata” che si prestava meglio ad essere lavorata, levigata, in qualche caso cesellata. Quando invece dovevano essere scritti, i testi mostravano i segni di cancellazioni e ripensamenti, spesso più correzioni si sovrapponevano sulla stessa parola, sia per un’esigenza estetica che per un certo ricercato perfezionismo nel contenuto. Anche per questo l’intervento “a braccio” gli riusciva meglio, essendo peraltro in grado di non smarrire mai il filo di un discorso che aveva comunque accuratamente preparato e memorizzato. Chiunque voglia occuparsi – non solo sul versante filologico – dei suoi scritti dev’essere consapevole della forte componente orale che in essi si conserva: il dire è la forma prima del suo scrivere.
La recente pubblicazione dei suoi discorsi pronunciati nelle aule parlamentari tra il 1972 e il 1993 (che riempiono un corposo volume di oltre 800 pagine), così come l’edizione (assai più smilza) dei suoi interventi al Consiglio Regionale della Lombardia nei primi anni Duemila hanno riacceso l’attenzione sulla sua produzione scritta, Nonostante la loro destinazione originaria, questi materiali lasciano emergere una ricchezza stilistica degna di essere studiata anche al di fuori del dato meramente storico e politico. In essi l’autore evidenzia una concezione della parola intesa come un poderoso strumento educativo, fatto per convincere piuttosto che per vincere. A prescindere dall’enfasi o dall’animosità del momento, tutti i testi si muovono su un piano argomentativo logico ed essenziale, sorvegliato e stilisticamente sobrio. La sintassi è disciplinata e complessa, ma raffinata, spesso interrotta da precisazioni e incisi, mai roboante o concettosa.
In passaggi di particolare rilievo, Martinazzoli utilizza echi, impressioni e immagini che provengono dalle sue letture. In queste emergenze, si manifesta l’estrema curiosità letteraria – quasi eclettica – del politico e l’estensione del recinto dei suoi auctores dalle presenze per nulla scontate. Per esempio, non stupisce di trovarvi traccia di Voltaire o di Rousseau, di Maritain o di Mounier, di Beccaria o di Capograssi, di Rosmini o di Manzoni, gli amati Machiavelli e Guicciardini – ma anche Tocqueville, Aldo Moro e Norberto Bobbio . Riconoscibilissima è anche la voce dei poeti, perlopiù richiamata con valore aforistico, ma senza cadere nello sterile citazionismo: i più frequentati – e visibili anche nel livello profondo, dove compaiono sintagmi d’autore non apertamente denunciati – sono soprattutto gli amati Rilke, Luzi, Montale e Neruda; ma non mancano Baudelaire, Dickinson, Valéry.
Altrettanto ricco è il parterre dei prosatori stranieri di Otto e Novecento (tra gli altri, soprattutto Tolstoj e Dostoevskij, ma anche Dickens e Melville, Stendhal e Flaubert, Mann, Kafka e Scott Fitzgerald) e quello dei drammaturghi (che fa venire a galla, accanto a quelle dei prediletti Shakespeare, Molière e Pirandello, le voci significative di Büchner e Kraus).
L’uso della materia letteraria è sempre elegante, mai insistito né affettato, e dimostra la lunga fedeltà di Martinazzoli alle sue grandi passioni giovanili (in ordine di importanza, la giurisprudenza e la letteratura), ma anche l’alto valore in senso propriamente testuale della sua parola: «parola parlata», per dirla con Castagnetti, ma che è lecito studiare nel suo “farsi” scrittura. Lo dichiara apertamente già dal 1975: «Credo più al sale dei poeti che non alla marmellata dei sociologi» (Martinazzoli, Discorsi parlamentari cit., p. 66).
Martinazzoli saggista: la scrittura oratoria
Il resto della sua produzione – saggistica lato sensu – si muove lungo un asse tematico che unisce pensiero politico, riflessione etico-filosofica e passione letteraria. Il suo primo volume – Controcorrente DC, un’antologia di articoli a tema politico perlopiù destinati alla formazione dei quadri e dei militanti della sinistra democristiana – vede la luce nel 1979, un anno dopo il rapimento e omicidio di Aldo Moro: in esso già s’intravvede la centralità della lezione del grande statista pugliese e il suo influsso decisivo sull’evoluzione del pensiero di Martinazzoli. Nel 1985, mentre è ministro di Grazia e giustizia, pubblica due libri importanti: il primo – Il limite della politica, uscito in marzo – prosegue lungo la linea del precedente, ma con maggior sistematicità e più ampio respiro; il secondo – Pretesti per una requisitoria manzoniana, uscito in dicembre – è, invece, un vero e proprio saggio letterario, frutto dell’ampia rielaborazione di due interventi pronunciati in altrettanti “incontri in pubblico” con filologi, letterati e intellettuali in occasione delle Celebrazioni del bicentenario manzoniano. Il volume contiene un’originale e raffinata esegesi della Storia della colonna infame, che ha goduto di una discreta fortuna editoriale (ancor oggi vitale) e ha raccolto più di un apprezzamento anche in ambienti accademici.
Gli anni della sua massima esposizione politica tra il 1988e il 1994
La scrittura si fa più rapsodica. Tuttavia, Martinazzoli non viene meno alla consuetudine – inaugurata fin dalle primissime esperienze amministrative, come assessore alla cultura del suo comune natale – di frequentare artisti e di dialogare con intellettuali e letterati. Il segno tangibile della cura di questi sodalizi intellettuali si rinviene nei numerosi scritti d’occasione (introduzioni, prefazioni, postfazioni, note ed elzeviri) o interventi a manifestazioni culturali e vernissages, in qualche occasione raccolti e pubblicati. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, Martinazzoli si dedica soprattutto alla scrittura di meditazione e di testimonianza morale e civile: scrive o ripubblica vari contributi dedicati al pensiero e al magistero politico e umano di Aldo Moro, ragio- na sulla lezione di don Primo Mazzolari, si dedica a riflessioni su personaggi e autori che incarnano il paradigma del dialogo (e del conflitto) tra verità e giustizia, tra fede e impegno. Nascono così le lectiones magistrales su Nicodemo e su Mosé e la bellissima lettura del VI canto del Purgatorio di Dante, regalata agli studenti di un liceo bresciano; un dialogo, quello con i giovani, che si fa più fitto dalla metà degli anni Novanta fino al sopraggiungere della malattia, che lo conduce alla morte il 4 settembre 2011.
La scrittura della parola e l’educazione alla complessità
Le osservazioni fin qui condotte ci permettono di isolare alcuni tratti peculiari della scrittura di Martinazzoli: una scrittura della parola, sorvegliata ed elegante tanto nella sua articolazione primigenia quanto nel processo di adattamento e revisione, che conserva – gelosamente e intimamente – la sua relazione con l’oralità. Un’oralità, si badi, per nulla gergale o colloquiale, nemmeno quando – per facezia o vezzo polemico – allude alle origini provinciali del suo autore, né quando si mostra lieve e sognatrice o si schernisce, per sottrarsi al “fuoco della controversia”. Un’oralità strategicamente progettata, consapevole e mimetica, mai improvvisata, che procede per argumentum, che mette in fila analisi complesse e sintesi icastiche.
Un’oralità agita che si fa prosa: pulita, asciutta, razionale, mite negli intenti ma mai arrendevole nello stile. Una prosa che non si sottrae al confronto, all’obiezione, all’analisi antitetica. Una prosa enucleata entro un orizzonte di illuministica e ragionata complessità. Insieme alla mitezza (tratto caratteriale prima ancora che stilistico di Martinazzoli), la complessità è la cifra della sua scrittura: una complessità che non è oscurità, ma piuttosto rifiuto della semplificazione banale; una complessità che si propone di condurre – di educare, nel senso etimologico di ‘tirar fuori, guidare, condurre’ – l’interlocutore all’approfondimento; una complessità che non cede a schematismi o a risposte immediate e faciliori.
Che parli da ministro o da lettore, che scriva di politica o di letteratura, Martinazzoli è complesso senza mai essere saccente: è, piuttosto, ostinatamente riflessivo e – per quanto semanticamente denso – retoricamente lineare. Una linearità assertiva ma indulgente, che trova nell’inciso, nella parentesi, nella precisazione aggettivale o avverbiale, nella smussatura soggettiva le vie per addolcire ogni possibile – e sempre rifuggita – perentorietà.
Martinazzoli dà vita ai suoi testi sforzandosi di attivare, prima ancora del dato semantico o ideologico della comunicazione, un’impressione segnica di natura sobriamente estetica, che ponga l’interlocutore in sintonia e in συμπάθεια col locutore, affinché il secondo possa guidare il primo lungo il dipanarsi dei suoi ragionamenti. Ne scaturisce un linguaggio del tutto alieno al “politichese”, e anzi diffidente – pure in contesti estremamente tecnici o di alto valore ideale – nei confronti dell’insidia lessicale tecnocratica o ideologica.
Più la densità del ragionamento rende ardua la comprensione, più la prosa si sforza di farsi chiara, non disdegnando l’impiego – misurato, per poter essere efficace – di apologhi, metafore, paradossi, frasi allusive e giochi di parole: strumenti, certo, non sconosciuti all’armamentario retorico di un avvocato penalista, ma che Martinazzoli impiega più come provocazioni intellettuali che come coups de théâtre, in modo da lasciar intravvedere la linea di un pensiero dentro la confusione proteiforme del reale.

DISCORSO AL XVIII CONGRESSO NAZIONALE DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA
Il suo più celebre discorso fu pronunciato al XVIII Congresso nazionale della Democrazia Cristiana il 20 febbraio 1989. Il congresso – l’ultimo prima dello scioglimento del partito – si svolse al PalaEur di Roma tra il 17 e il 22 febbraio 1989 e sancì la fine della segreteria di Ciriaco De Mita, sostituito nel ruolo da Arnaldo Forlani.
Caro Presidente, cari amici del Congresso,
io sono uno di quelli – non pochi – che hanno partecipato con convinzione e con passione all’avventura di De Mita alla guida del partito. Non era un sogno, era un’impresa difficile, inevitabilmente incompiuta. Per questo non c’è ora un risveglio deluso e nemmeno un rimpianto. Anzi, per le stesse ragioni per le quali quell’impresa fu assunta ed assolta così che il partito è ora qui, non alla retroguardia, non più indietro di altri, a raccogliere la sua sfida, vi debbo dire – con eguale sentimento – che, naturalmente, con amicizia, con fiducia, senza sospetto e senza pregiudizi, io voterò per Arnaldo Forlani alla Segreteria della Democrazia Cristiana.
Lo voterò anche nel segno di quell’assunzione di responsabilità che ci è stata chiesta e che non abbiamo mai declinato. Siamo entrati in congresso convinti di questa scelta ed ora siamo qui a confermarla. Non c’è dunque il rischio, non c’è mai stato il rischio di una nostra distante e pretenziosa chiusura. Vorrei dire all’amico Gerardo Bianco che fa soltanto parte delle nostre finzioni polemiche il fatto di descrivere una storia “giacobina” della sinistra democristiana. Siamo nati nel segno di un’altra vocazione. Abbiamo creduto che il nostro compito, insieme, non davanti agli altri, non prima degli altri, ma con la nostra peculiarità, fosse quello di contribuire al farsi di una grande ricomposizione di popolo e di Stato. Ci siamo collocati, nella storia del partito, particolarmente su questo versante di riflessione e di iniziativa.
Interpreto, quindi, davvero sinceramente, se volete con candore ma con determinazione questa esigenza della continuità, del prolungamento della nostra esperienza. Non possiamo, d’altro canto, leggere le vicende della Democrazia cristiana come un seguito di intermittenze, di parentesi, di sconfitte e di rivincite. Sarebbe un destino senza storia, per ciò stesso incompreso e inafferrato.
Ma questo è il tema del congresso, che è stato affrontato nella relazione di De Mita e nel discorso di Forlani e che dobbiamo cercare di arricchire e di sviluppare. È il nostro compito nell’occasione che ci è data. Non conviene attardarsi. Non è utile confrontare le nostre ragioni declinandole sul tempo del passato. Altrimenti, la continuità finisce per essere interpretata come una circolarità. Il nostro compito non è quello di pensare il futuro come ritorno, ma di progettare il nostro ritorno al futuro. Questo è il dovere che la vita stessa ci insegna e che riguarda anche la vita della politica. Non è facile capire come si fa, sapere come si fa.
la crisi della politica e della regola democratica
È scritto nella introduzione di De Mita e poi nel contributo di Forlani – secondo me con coraggio e senza reticenze – che abbiamo di fronte una condizione di crisi della politica. Ma poiché noi siamo la politica non è che questa crisi possiamo limitarci a contemplarla. Dobbiamo indagarla e riconoscerla per dominarla e superarla, almeno per la risposta che ci appartiene. Questa crisi è una crisi di potere, di autorevolezza e di primato della politica. Oggi la tecnica e l’economia tendono a contare di più della politica. Le ragioni sono molteplici. Una ragione è che gli strumenti, le istituzioni, i comandi della politica sono ancora quasi tutti contenuti nell’angustia delle dimensioni nazionali, mentre le competizioni della tecnica e dell’economia si svolgono sempre di più secondo le lunghezze transnazionali.
Ma vi è un’altra ragione più insidiosa, l’ho detto così spesso che debbo chiedere scusa a quanti registreranno la monotonia di questa ostinazione. Se siamo, come siamo, una società “dei due terzi”, il rischio vero della regola democratica è quello di perdere per strada, di impoverire e inaridire la sua attitudine di riscatto. La storia delle democrazie moderne – delle democrazie sociali – è la storia di una regola di maggioranza che ha agito positivamente in società nelle quali le posizioni disagiate erano quelle dei più.
Se questo rapporto si rovescia è certo il risultato di una vittoria storica ma insieme il presentimento di uno scacco ulteriore, l’esaurirsi tendenziale delle virtualità di giustizia e di liberazione della regola di maggioranza. E non vediamo che è lì – per noi con la nostra cultura, per i socialisti con la loro, per i comunisti con la loro crisi e la loro ansia, per la storia, insomma, e per la promessa di ciascuno – il problema dei partiti oggi in Italia? Quello di capire come ognuno si attrezza e compete e determina, in questo paese, una nuova sintesi di valori e interessi? Tanto più vitale e persuasiva se raggiunge intimamente le coscienze e le vite e le persone e ricostruisce da lì stili e culture e speranze collettive, in un tempo che vieta, per la stessa sopravvivenza umana, misure esorbitanti di sviluppo quantitativo.
È dunque a un punto morto l’interpretazione contrattualistica del modello democratico. Siamo all’alterazione del modello, con partiti che si sentono costretti ad essere quasi soltanto acquirenti di consenso e lo comprano ad un prezzo sempre più esoso, ottenendo inevitabilmente in cambio un aumento di ingovernabilità e la rinuncia ad un minimo di progettualità che contenga e raffiguri il legame convincente di un bene comune, di un destino condiviso.
Noi siamo nati all’impegno politico sapendo bene che lo Stato non contiene tutta la vita, tutto il valore, tutto il sentimento. Ma non dubitiamo della funzione regolatrice dello Stato, che si legittima soltanto se è capace di garantire un equilibrio plausibile tra il diritto e il dovere, tra il singolare e il plurale, tra il personale e il sociale. Diciamo dunque di un limite ma riconosciamo un’autorità, quella che deve appartenere all’organizzazione più alta ed esauriente della vita sociale, al riferimento più equo e più rassicurante che una società libera possa raffigurare. Dunque è ancora l’idea della costruzione e della crescita dello Stato democratico quella che deve orientare e unificare la nostra ricerca, la nostra analisi, la nostra proposta, anche nel tempo della crisi della politica ripartire dalla società e correggere le regole
Allora, le risposte sono molte ma le certezze sono difficili, perché se il passato è tutto leggibile e ciascuno ne può dare liberamente e impunemente la sua versione, il futuro è piuttosto indecifrabile e dipende dalla semina o dalla dissipazione del presente.
Si dice che occorre ripartire dalla società. Altri immaginano che bisogna soprattutto correggere le regole. Io credo che sarebbe improprio accettare un’alternativa contro l’altra. Bisogna fare le due cose insieme: ascoltare, secondo una esigenza di sintesi, ciò che si aggrega ed autonomamente si riconosce nella società ma offrire insieme una regola più autentica, più persuasiva ed un orientamento autorevole. Se siamo in tanti a riconoscere – di fronte alla frammentazione indotta dalla modernità – la forza di resistenza e di recupero di una società umana che non vuole smarrire il suo fondamento e le sue ragioni, proprio per questo dobbiamo ridurre un ingombro e un’intrusione.
Ma se siamo consapevoli dell’attitudine sintetica e ordinatrice della politica dobbiamo tornare allo Stato, che è il luogo e il paragone decisivo della responsabilità politica. La politica vive la sua effettività, la sua concretezza, la sua capacità di risposta dentro e per il tramite delle istituzioni. La politica si incarna nelle istituzioni. Qui è il nostro più rilevante dovere. Allora, non è giusto, è improvvido teorizzare una opposizione tra Stato e società. un impegno di rigore
Abbiamo corso, corriamo ancora, nel partito, il rischio di determinare una divaricazione incolmabile fra delle “anime” sinceramente declamate: l’anima del sociale, del solidarismo e l’anima della regola liberaldemocratica. Così, dentro questa incomprensione, è cresciuto lo spazio – e lo stile – di una sapiente astuzia transattiva o di una gestione tutta riflessa sulle ottuse ragioni del potere. Credo che se non riconosciamo, in tanti, insieme, che questo è più che mai il tempo di una straordinaria capacità di ricongiunzione di regole e di ispirazione, allora perdiamo la nostra sorte. Questa è l’impresa, identificabile nell’esigenza di mettere insieme Stato di diritto e Stato sociale, legalità ed equità, norma e valore, interesse e solidarietà. Questo è il problema, perché badate, amici, che uno Stato debole, uno Stato inefficiente, uno Stato partigiano è uno Stato che non corrisponde alle ragioni di solidarietà, ma è assai inerme ed arreso rispetto ai torti della prepotenza.
Anche questa scomodissima ed aspra esigenza di riequilibrio – per usare una parola soffice – del debito pubblico dobbiamo viverla ed assumerla non per una impassibile coazione tecnica o secondo le accortezze di una sfida a chi si ripara meglio, a chi si sottrae di più. Bisogna percepire le inesauribili ragioni morali che sottendono a questo dovere. Se noi leggiamo che il diciotto per cento delle famiglie italiane percepisce ormai, ogni anno, quasi centomila miliardi di interessi sul debito pubblico, perché non capire che, non arrestando questa tendenza, immettiamo nella società un carico di diseguaglianza enorme e indomabile? Sarebbe questo l’esito ineluttabile della grande storia dello Stato sociale? Su questo rifiuto, amici, si misura la moralità di un impegno di rigore. Possiamo calcolare tante ribellioni, ma non dobbiamo temere, se operiamo con equilibrio e con verificabile equità, una incomprensione irresistibile. Noi sappiamo che non il rigore mortifica, ma l’ingiustizia, il privilegio.
Allo stesso modo – lo ricordava Marini ieri – se noi constatiamo che in questi ultimi due anni si è registrata una contrazione del gettito dell’Irpeg, l’imposta sulle imprese, e la cosa non ci riesce proprio comprensibile sul paragone di tutti gli indicatori economici, allora abbiamo il diritto di denunciare pacatamente le dissimulazioni che si colgono dietro la suggestione del “visentinismo” da battaglia, quello che tende a riconoscere in noi e solo in noi il baluardo dell’antistato, il partito degli accattoni e dei sudditi. Ma credo non sia sufficiente ribellarsi alla deformazione e all’incomprensione. Possiamo dare risposte dure e meritate solo se dimostriamo il nostro valore e la nostra capacità rappresentativa in modo sempre più limpido; solo se noi, per primi, vogliamo essere sempre di meno il partito di chi preferisce essere suddito e diventiamo sempre di più un partito di popolo, dunque un partito nel quale si riconoscono compiutamente quanti vogliono emergere a una libera cittadinanza di diritti e di doveri.
In questo senso, la questione fiscale è oggi la questione cruciale per la ricostruzione dello Stato democratico, ma non è la sola poiché è coinvolta tutta la lunghezza dei diritti e dei doveri di una comunità nazionale che voglia mettersi al riparo dal rischio ma vivere, insieme, tutte le potenzialità che questo tempo, malgrado tutto, tende a sprigionare. Su questo paragone dello Stato, in questo raccordo intenso tra cittadini e istituzioni – senza di che governare, cioè chiedere a ciascuno di fare e patire qualcosa, risulta drammaticamente inutile e tecnicamente impossibile – dobbiamo interpretare e crescere i nostri rapporti di alleanza e le nostre posizioni di contrasto.
Accettare il nostro rischio
È chiaro che sono soltanto suggerimenti schematici, ma credo, amici – lo dico a De Mita, lo dico a Forlani – credo che noi dobbiamo assumere il coraggio di una parola in più, magari scomoda o fastidiosa. Riesce difficile, altrimenti, uscir fuori dal perimetro di un’analisi che si arresta ai confini dell’impotenza. Diciamo che occorre la forza dei governi di coalizione, ma ne valutiamo l’impossibilità; avvertiamo la necessità di un dinamismo ma non troviamo un varco; vediamo le novità ma non sappiamo dove collocarle se non in una complicazione dell’esistente; ci sembra di veder congetturare un futuro contro di noi ma alimentiamo soltanto la nostra ansietà. Penso che, senza impazienza e senza timori, e proprio per una fedeltà all’intuizione che ha fatto grande la nostra storia e certa la nostra durata, non dobbiamo restare fermi a scrutare l’orizzonte.
Se le cose sono cambiate, e sono cambiate in meglio soprattutto per nostro merito, e se questa società e questa democrazia sono ancora in movimento lungo nuovi percorsi inesplorati, perché allora non dire una parola anche per noi, perché non accettare, anche per noi, il rischio che deve correre chi vuole e può essere ancora memoria di futuro?
Non possiamo essere convinti e convincenti se continuiamo a pensare che nel mutamento – e quale mutamento – ci conviene identificare, assiomaticamente, la democrazia cristiana come il motore immobile del divenire. Non c’è un motore immobile del divenire. Quello che conta è mantenere ferma la nostra capacità di persuasione, tradurre il nostro stigma sulle tavole del cambiamento ma insieme aderirvi con intelligente flessibilità.
Altrimenti, amici, questa idea della nostra centralità come stella fissa del movimento può riuscire rassicurante per i nostri discorsi, per i nostri congressi, ma risulta, in verità, troppo comoda per i nostri alleati e per i nostri avversari. Voi ricordate quando si enunciò, in termini polemici, clamorosi, infuocati, l’esigenza di costruire e realizzare un’alternativa al cosiddetto sistema di potere della democrazia cristiana. Si indicava, in quel modo, il deteriore della nostra vita politica, quasi una colpevolezza esclusiva. E si dimenticava che nel cosiddetto sistema di potere democristiano c’era dentro il potere della democrazia cristiana, il potere degli alleati della democrazia cristiana e anche il potere della opposizione alla democrazia cristiana.
Ebbene, se noi accettiamo questa formula sia pure volgendola in positivo, consentiamo che tutti gli altri tornino a replicare, con sintassi diverse, lo stesso teorema. Ma non capite, amici, che stando fermi, non cercando noi per primi un superamento, diamo più consistenza e più immagine alle speranze – io dico alle avventurose illusioni – di chi, questo “sistema di potere” non vuole cambiarlo ma si appresta, semplicemente, ad ereditarlo?
le riforme istituzionali Ecco perché a me pare che anche il terreno delle riforme istituzionali – evocato nella relazione di De Mita con la prudenza che ci vuole, senza enfasi, e ieri ancora richiamato da Forlani sia pure con l’avvertenza che non si trova lì la soluzione delle soluzioni – vada tuttavia recuperato ad una riflessione accurata ma non inerte.
È vero: se noi ritenessimo che nella crisi della politica è pressoché inevitabile rivolgersi alla geometria istituzionale come ad una sorta di surrogato della politica, ci consegneremmo a delusioni immancabili. Ma se invece immaginiamo che questo sia uno degli strumenti o delle risorse della politica, allora diamo una direzione al movimento, scaviamo un corso al dinamismo della vita sociale e apriamo una prospettiva ulteriore alla politica. 61 Io dico anche – senza reticenze – di una possibile riforma elettorale. Non possiamo continuare a girare intorno a questa ipotesi senza provare a considerarla più da vicino. Se persistiamo nel rimuoverla, potrà accadere che anche questa congettura venga agita senza di noi, contro di noi.
Certo, il Presidente del Consiglio precisa, sottolinea – ed è giusto che lo faccia – che di questo capitolo non c’è traccia negli accordi di governo. Certo, Forlani ha motivo di rassicurare i partiti “laici” che non faremo niente contro di loro e niente gli imporremo. Ma tutto questo non impedisce a un partito la fatica di far crescere una persuasione al suo interno, di concludere a una proposta da suggerire, da pronunciare, da discutere, da confrontare.
Non è questa la funzione primaria ed originale di un partito? La storia politica non è solo la storia delle scelte e delle decisioni di governo. È prima di tutto, la storia di un’idea che nasce e si incarna, si confronta, combatte, si arricchisce e si precisa nel contrasto ma cresce e, anche se sconfitta, riprende la sua strada, ritorna e vince quando ha diritto di vincere per il consenso che matura e per la speranza che suscita. Questa era la grande via sturziana della libertà valorizzata come alimento e pegno della crescita umana, civile e politica.
il rapporto con i partiti
Questo è il modo in cui noi possiamo e dobbiamo esprimere una positiva provocazione verso i nostri alleati socialisti e laici, perché l’incontro che si realizza, di grandi tradizioni di sicure virtualità democratiche, non si esaurisca nella difesa di un patto qualsiasi ma si manifesti per una sicura e sensibile capacità di interpretazione e di risposta alla domanda sociale. E questo è il modo giusto di prestare attenzione al partito comunista, alla sua crisi, alla sua sincera volontà di rinnovamento. Se non offriamo un saldo terreno di confronto, vero, impegnativo per tutti – perché le regole non sono il luogo delle spartizioni e delle convenienze, ma la misura secondo la quale ciascuno rinuncia a qualcosa – se non offriamo questo terreno di confronto e di verifica, allora davvero si perderà questa virtualità, che è anche un grande giacimento morale e prevarrà quanto già oggi vediamo. Un radicalismo di massa, un inseguire mode, un movimento inconcludente e senza approdi, tutto ciò insomma che può fingere la plasticità della politica ma non può nascondere la sua espropriazione, la sua resa alle ragioni spietate ed esatte della tecnica e della economia. il tema del governo
C’è, infine, il tema del governo sul quale credo tutti, impegnativamente, severamente siamo determinati non solo alla difesa ma a un contributo propulsivo fatto di tutti quei gesti intelligenti ed adeguati che quotidianamente occorrono per tutelare, garantire, alimentare e assecondare una politica di governo.
Questo è il modo ] E credo – del resto, non è un pensiero peregrino – che questo, In questo senso, non contano tanto, non sono significative le rappresentazioni simboliche o le dichiarazioni di intenzione.
Quello che conta è il modo di essere dei partiti e la verità delle competizioni legittime che si sviluppano anche all’interno di una alleanza quando essa è chiamata non a gestire un equilibrio, che non c’è, ma una fase che lo cerca. Lo Stato, il governo, il parlamento assomigliano alla qualità dei partiti. C’è un legame indissolubile tra il nostro modo di essere come partito e il nostro modo di essere nelle istituzioni.
Non ho esitazioni a dire – proprio perché ho ascoltato non supponendo una recriminazione o una polemica retrospettiva – non ho esitazioni a dire che questa è la parte del discorso di Forlani che ha destato di più il mio interesse e la mia considerazione. Vi sono lì parole forti, che pesano e peseranno di più sulle sue spalle di segretario. la ambigua legalità del partito Certo Forlani ha parlato di una legalità da riconquistare, ma io chiedo: è solo questo che occorre? Dobbiamo solo “tornare”? Ma dove? A una età dell’oro che non c’è mai stata?
Se arriviamo a Roma dopo aver consumato una sequenza congressuale nella quale riconosciamo che una buona metà delle assemblee provinciali e regionali non si è svolta, io non mi scandalizzo. 80 Se avvertiamo, in sostanza, che ci riesce di aprire un confronto proficuo solo mettendo da parte le tessere comunque guadagnate, e se i congressi possono cominciare solo là dove finisce la partita per il potere, dovremo pur concludere che c’è una finzione sempre più minacciosa per la nostra verità.
E non c’è un degrado insidioso in questa difficoltà di intendere per quali orientamenti politicamente significativi ci avviciniamo o ci distinguiamo dentro il partito? Abbiamo cercato, nel congresso dell’86, uno scioglimento, un disarmo di sovrastrutture ossidate. Io non ho da rinnegare nulla di quel tentativo. Devo solo riconoscere che fu un tentativo, e non fu vittorioso, e non trovò una percezione intensa e fino in fondo sincera nella coscienza di ciascuno. Ricominciamo, e ricominciamo anche dallo statuto, ammettendo che a quello che abbiamo non si può davvero tornare, poiché è il risultato di una pesante stratificazione di convenienze quotidianamente cangianti, e dunque non un insieme di regole coerenti ma, esso stesso, l’esemplificazione del nostro disordine. ricominciare
Dobbiamo rifare una storia e per questa ragione, anche se so che le parole non sono tutto – ma sono pure qualcosa – io comincio a non parlare più di rinnovamento. Non dico più di un “rinnovare” ma di un “ricominciare”. Questo ricominciare riguarda l’esigenza che un partito popolare ha, nel tempo moderno, di non pretendere più di attingere, esso direttamente – e secondo gli strumenti tradizionali di reclutamento e di adesione – tutte le soggettività, le disponibilità, le inquietudini, le solitudini umane e sociali. Sarà partito popolare, sarà partito vittorioso quel partito che avrà la capacità di unire in una grande sintesi politica ciò che la società va aggregando ed esprimendo. Non in maniera neutrale. Scegliendo, ma nella consapevolezza che la politica ha a che fare con i valori solo se si è capaci di porre e di garantire le concrete condizioni di esistenza e di competizione dei valori che la vita e la società autonomamente suscitano. Del resto, si coglie qui la grande questione che riguarda e definisce la nostra identità. Essa è, inevitabilmente, anche oggetto di polemica e di fraintendimento, ma costituisce, per noi, un interrogativo perenne, mai compiutamente risolto. Fare politica, per un cristiano, vuol dire mettersi al centro di una contraddizione. Si sarebbe tentati di affermare che fare politica, per un cristiano, è insieme doveroso e impossibile. Sul crinale di questo paradosso si situa il nostro impegno, se volete la nostra inquietudine. laicità della politica
Vi è, certo, un principio, sul quale non è consentito un rifiuto. Esso riguarda la laicità della politica e la peculiarità dei suoi strumenti e del suo limite. Sturzo ce l’ha insegnato: la religione è universale; la politica è parziale. Non c’è, non ci può essere confusione o compromissione. Chi sta in politica sceglie questo dato della laicità, che non vuol dire separatezza ma significa il prezzo di correre da solo il proprio rischio. Ma questa, amici, è la condizione, solo la condizione. Questo è ciò che è necessario, ma non sufficiente. Occorre di più: la positività, il contenuto di una ispirazione. Ed oggi il nostro problema è più che mai – per l’intelligenza che si abbia di mettere assieme i fini e i mezzi – quello di ridefinire, rispetto ad una “laicità laicista” quella che chiamerei una “laicità cattolica”. Questa è la nostra impresa in un tempo, quello della modernità, che non vuole da parte nostra maledizioni e ripulse ma esige certamente una lettura critica. Non è per caso che registriamo uno smarrimento, una preoccupazione proprio là dove fino a ieri si ostentava una certezza, là dove si asseriva che era venuto il tempo di cambiare il mondo dopo averne svelato scientificamente le leggi e gli arcani. E non è per caso che si fa percettibile una domanda intorno al vuoto di senso e di valore cui sembra inesorabilmente declinare la “ragione” laica della tolleranza che ha certo rischiarato la storia ma è costretta a fare i conti con un vuoto di fini e con una incompiutezza etica che portano a presentire proprio l’epilogo della storia. 100 E non è per caso, infine, che l’ossessione di una libertà tutta chiusa nell’esaltazione dell’individualismo non trova il varco di una liberazione umana e ripiega nell’ossessione del successo e del dominio. Il fatto è che la modernità ha apprestato all’uomo una smisurata lunghezza tecnica ed economica, così che appare sempre più ardua l’impresa di una razionalità o di una ideologia che siano in grado di ricostruire un primato per le decisioni morali e politiche. Ci interroghiamo intorno alla possibilità di garantire un “potere sul potere” dentro una modernità controversa, al punto che vuole chiamarsi posterità. In questa modernità stanno quelli che hanno scommesso tutto sulla politica e che proprio per questo oggi perdono più di altri. Ma sta anche ciò che vorrebbe ridurci al niente della politica. Noi che non siamo stati il troppo della politica, non potremmo giustificare il nostro impegno se ci rassegnassimo al niente della politica. Anche noi siamo evocati a questa drammatica attualità. È qui, amici, che ci tocca rinverdire e ricollocare la nostra ispirazione cristiana, la nostra moderazione e insieme la nostra fermezza. Se accettiamo il nostro rischio, dobbiamo sapere che non siamo inermi. Ci accompagna una straordinaria freschezza. Noi conosciamo la finitezza della ragione umana e non abbiamo bisogno di adattarci al disincanto dall’ideologia. Siamo lungimiranti e disincantati come quelli che credono che un evento è accaduto nella storia umana, rifondandola su un’irrefutabile pietra di paragone. Un evento che ha tagliato e rinnovato la storia umana. Una storia umana che non si risolve senza residui nella storia terrena. E dunque tra il “già ora” e il “non ancora” si situa tutta la virtualità di una ispirazione cristiana nell’esperienza civile e politica. Per questa ragione siamo insieme un segno di moderazione e un segno di coraggio. Per questa ragione se siamo acuti e fedeli, se siamo liberi e intensi, possiamo ripetere più limpidamente di altri le grandi parole della libertà e della fratellanza. Ma la nostra prova non consiste in una declamazione. È piuttosto una profondità che ci chiama, perché l’ispirazione cristiana sia rintracciata e rivelata dentro i sedimenti della storia e ricostruita nelle grandi domande esistenziali che l’uomo moderno si pone e ci pone. eticità delle scelte Le alternative dirimenti della pace e della guerra, della tutela e della distruzione dell’ambiente, del farsi di una cultura della solidarietà piuttosto che del diffondersi del seme e delle strutture della violenza, non troveranno risposta esauriente dalla solitudine superba ed impotente della politica. Ma la politica, se vuole conservare un senso e una memoria etica, non può disertare da questa frontiera cui è chiamata, col suo limite e con la sua modestia, in essi riconoscendosi e per ciò stesso facendo riconoscere il suo valore e la sua legittimazione. È in questo sentimento della politica che vogliamo esprimerci, sapendo che non siamo portatori di una risposta già pronunciata, ma che non siamo estranei a una ragionevole, motivata speranza. Che ci fa ricchi di intenzione e di ascolto solo se ci riesce, questa idea democratico-cristiana, di farla vivere sempre meno in esilio nel partito della democrazia cristiana. Poiché siamo in molti a riconoscerci intorno a questo sincero proposito, per questo vi debbo dire che non credo di avere parlato a nome di gente che è sconfitta. la sinistra democristiana So che siamo, noi della sinistra democristiana, oggetto di attenzione da parte di osservatori afflitti da qualche eccesso critico. Essi pretendono di misurarci per la virtù che non hanno ma di decretarci vivi solo sulla bilancia del successo immediato, nel quale esclusivamente credono. C’è un poco di incoerenza in questo giudizio, che dobbiamo subire ma che non può turbarci. Io so che le vittorie, quelle che davvero contano, non si misurano lungo le sequenze delle vite singolari. Le vittorie che davvero contano nella politica e per gli uomini sono quelle che si calcolano sui corsi della storia ed è questa grande ambizione che ci unisce. Ma c’è il problema di capire come riusciamo a testimoniarla, questa grandezza, ad interiorizzarla, ciascuno per sé stesso, poiché non vale definirla contro gli altri. Ho avuto l’onore e la ventura, in questi ultimi due anni, di presiedere il gruppo parlamentare dei deputati democristiani. Un gruppo parlamentare di straordinaria potenzialità che ha sostenuto e guidato – come il gruppo del Senato – battaglie importanti e difficili. Sono grato al partito e ai colleghi deputati di questa opportunità che mi è stata offerta, sono grato per la libera coesione con la quale il gruppo mi ha aiutato a svolgere questa responsabilità. Ebbene amici, ho avuto modo, in questa esperienza, di conoscere di più e meglio, le riflessioni, le inquietudini, le attitudini di tanti colleghi e mi sono chiesto spesso come possa accadere che ciascuno di noi vorrebbe essere meglio di quello che è e non ci riesce quasi per una costrizione, per una sorta di prigionia. Per il timore di una rischiosa, invalicabile contraddizione tra la resa più alta, della sua qualità umana e il prezzo esoso della sua sopravvivenza politica. Non ho risposte ma credo che bisogna indagare qui – non in una polemica, ma per una acuta e solitaria domanda della coscienza – la nostra rinnovata unità, se vogliamo che una promessa venga esaudita e corrisposta. una ragionevole speranza Siamo evocati, per essere parte di un’impresa comune, all’assunzione intera di una responsabilità personale, costi quello che costi, anche una rinuncia se questo può essere l’unico gesto veritiero che ci sia consentito. Ieri Forlani citava un proverbio persiano. Scotti, questa mattina, ci proponeva una metafora africana. Io, che sono un provinciale, vorrei concludere ricordando le parole di un prete della valle padana. Diceva don Primo Mazzolari che dovevamo attrezzarci per essere un poco all’opposizione. Ma, precisava, non all’opposizione degli altri, piuttosto all’opposizione di noi stessi, delle nostre grettezze, del nostro egoismo, se necessario delle nostre ambizioni. Quando ciascuno di noi riflette oltre il fuoco della controversia e riesce ad illimpidire stati d’animo e percezioni troppo avare, scopre che, alla fine, in questo nostro impegno al quale ci sentiamo sinceramente evocati, non c’è successo personale che riesca a pareggiare la serena e placata certezza che si acquista per il solo fatto di servire, senza rimorsi e senza inganni, questa verità, questa ragionevole speranza, questa splendida intuizione di un’idea democratica e cristiana.

Testo liberamente condensato dal libro "NONOSTANTE TUTTO" Autobiografia, Mino Martinazzoli Mino Martinazzoli (Orzinuovi 1931, Brescia 2011) è stato uomo politico e di governo, presidente della provincia di Brescia (1970-72), capogruppo al Comune di Brescia (1975-80) e sindaco di Brescia tra il 1994-98.
Senatore dal 1972, ministro di Grazia e Giustizia, ministro della Difesa, ministro delle Riforme Costituzionali, presidente dei deputati democristiani. Come segretario della Democrazia Cristiana nel 1993 ne decise lo scioglimento per avviare la breve esperienza del Partito Popolare. Candidato presidente della Regione Lombardia nella primavera del 2000. In questa autobiografia-scritta nel 1993, quando sciolse la DC e fondò il nuovo Partito Popolare, si racconta con la sobrietà che ha sempre caratterizzato il suo stile. Il contenuto è denso di riflessioni ponderate e incisive, come spesso le sue parole, non banali, non comuni su politica, società, istituzioni.
Con la consueta acutezza pregnanza e ricchezza culturale ed equilibrio vengono affrontati i temi principali che dalla politica ridondano sulla società e costituiscono un manuale se non di buone prassi, di elevati suggerimenti per l’agire sociale e politico. Diversamente dal solito, quando una singolare costruzione letteraria è il mezzo per inseguire in profondità i labirinti del pensiero, lo stile del saggio è più piano, però le parole condensano il massimo del loro sapere.
Un uomo apparentemente triste e tenebroso anche se era gioviale e scanzonato molto più di quanto dimostrasse: aveva la qualità dell’ironia, o per lo meno dell’autoironia.
Qualche giorno dopo le improvvise dimissioni (inusuali via fax) dalla segreteria del Partito Popolare di fronte alle infinite critiche recitava agli amici con una vena di malinconia per le incomprensioni una poesia di Giorgio Caproni :” Dite pure di noi /se questo vi farà piacere /che siamo dei rinunciatari/che non riusciamo a tenere/il passo con la Storia. Le frasi fatte, sappiamo/ sono la vostra gloria. Essere in disarmonia/con l’epoca (andare/contro i tempi a favore/del tempo) è una nostra mania. Crediamo nell’anacronismo/nel fulmine. Non nell’avvenirismo.”
Ed ecco il distillato di alcuni pensieri guida del suo agire.
“Dopo il liceo ottenni una borsa di studio al Collegio Borromeo di Pavia.
Il Borromeo era identificato come il collegio cattolico ed il Ghislieri come collegio laico. Tra i rettori del Ghislieri c’era Teresio Olivelli, eroe della Resistenza. Mentre il rettore del Borromeo era per statuto un sacerdote: dopo don Angelini c’è stato monsignor Belloli, poi vescovo di Anagni. Molti ex alunni del Borromeo sono diventati comunisti e molti del Ghislieri hanno militato nei movimenti cattolici: per esempio Ezio Vanoni.
Il rettore Angelini ci spiegava che chi studia seriamente ha l’orgoglio di ciò che impara ma deve avere l’umiltà di ciò che non imparerà mai. L’umiltà non è una virtu’ vile se non ipocrita. Il coraggio è un qualcosa che scopri quando sei nella condizione di esprimerlo: il coraggio è la dignità di fronte alle prove che ti vengono proposte paura e della rabbia che generano nella cittadinanza le frustrazioni oggi cosi diffuse.
Con la fine della guerra cominciarono ad arrivare nelle edicole moltissimi giornali di partito, “ Il Popolo” , “l’Unità” , “l’Avanti” :il fatto di non leggere più una sola verità ma una serie di verità a confronto fu rivelatore e innovatore. Fu allora che cominciai a pensare che il vero cambiamento è la libertà. Ed anche (riferendosi ai voltafaccia di molti ex fascisti ..) che le rivoluzioni non sono sempre il mutamento di tutto ma sono spesso il travestimento dell’immobilità, il trasformismo: garantisce più cambiamento il riformismo.
Penso che in questo momento non c’è altro che la politica per chi abbia l’aspirazione a dare una mano al proprio paese: ai giovani non dico di vivere per la politica, ma di vivere di tanto in tanto per la politica. Il dialogo sociale, l’onesto amministrare si è complicato: ma non per questo bisogna rinunciare a svolgerlo. Il proprio paese non è solo un luogo geografico, ma una dimensione di vita che mi ha formato e mi accompagna. E la domanda è se la politica non sia stata una dilatazione dell’interesse per la mia gente, una giustificazione discutibile: forse lavora di più chi opera nel sociale ma trovo straordinaria la frase di Paolo VI secondo la quale la politica dovrebbe essere la forma più alta della carità.
Perciò vorrei essere un politico, un patriota del tipo di quello descritto da Ezio Vanoni, in un discorso memorabile che pronunciò al senato poche ore prima di morire nell’infermeria di Palazzo Madama. Contro la polemica astiosa di fascisti e monarchici ricordo come aveva cominciato a pensare che per suoi cittadini la Patria non fosse solo quella della cartella delle tasse, della cartolina precetto o del monumento ai caduti.
Le società moderne sono società aperte che hanno bisogno di un rinnovamento dell’educazione democratica, cominciando a preparare i cittadini nella scuola. Ma prima della scuola ci vuole una famiglia che torni ad essere il luogo dove si insegna l’obbligazione più generosa tra le nazioni, la difesa dell’habitat.
La crisi delle famiglie invece si riverbera sulla scuola, la crisi della scuola determina la crisi del quartiere e cosi via e ne viene coinvolta la stessa qualità umana della città e quindi della nazione. Non è la quantità della vita ma la qualità della vita quella che conta. Dunque lo Stato non può ragionare solo in termini di quantità poiché la società progredisce solo in rapporto alla qualità.
Purtroppo il Paese si è trovato prigioniero, mortificato, in gran parte paralizzato da una struttura statuale burocratica e clientelare.
Dopo vent’anni di esperienza parlamentare ho capito che in Parlamento c’è la routine, la distrazione, la retorica, l’assenteismo, la noia, l ’inadeguatezza e la meschinità: ma c’è anche la dignità, il rigore, il sacrificio, la professionalità, la competenza e lo spirito di servizio. La politica, se vuole pretendere equilibrio ed efficienza deve fare i conti con i propri limiti: deve evitare il troppo di politica.
La presa di possesso(occupazione) delle istituzioni da parte dei partiti ha corrotto sia le regole di rappresentanza sociale che governativa. E’ la corruzione di queste regole che ha portato in Parlamento persone incapaci (perché non al servizio della comunità) a fare sia i parlamentari che i ministri. Quanto alle qualità che deve avere un ministro mi sembrano la competenza di settore, la capacità di esprimersi in forme legislative ed amministrative, l’attitudine alla sintesi e al comando. Abbiamo una cultura politica, enfatica sui fini e distratta sui mezzi. Debolezza del pensare e disinvoltura dell’agire .Questo spiega l’insuccesso di molte riforme.
I partiti sono la società che si fanno Stato, con l’idea di una tensione, di un dinamismo costante tra la parzialità che è propria di chi ha certe idee e la capacitò di convincere, di far prevalere questa idea secondo una regola democratica, che è il principio della maggioranza: ma una maggioranza che una volta perseguita serve non solo per sé ma serve anche a chi è rimasto in minoranza. Noi politici siamo prigionieri dei nostri monologhi, ma ci è stato insegnato che non si perde o non ci si salva in solitudine: se non riusciremo a coinvolgere tutti gli Italiani nel cambiamento delle regole e delle scelte di politica non risulteremo costruttivi. Mi confortano nell’aspettativa alcuni versi di Emily Dickinson che dice pressappoco: non conosciamo mai la nostra statura se non quando siamo chiamati alla prova.
La politica e l’economia sono stati il tentativo di superare il divario tra la limitatezza dei mezzi e l’ampiezza dei fini. Dunque l’esplorazione dei cristiani-democratici per un progetto di rinnovamento deve cominciare non dal politico ma dal non politico.
Oggi constatiamo che c’è una ostentazione strepitosa, si preferisce alla durata dei comportamenti l’istantanea magia degli eventi, alla discreta traccia dell’essere la vistosa evidenza dell’apparire: importa essere puntuali sull’ora del successo o della sua illusione. L’imprudenza sorpassa l’ipocrisia, la prosopopea si sostituisce alla sincerità.”
E mentre la maggioranza degli abitanti della terra sta male ,una grande parte dei cittadini del mondo non ha condizioni di vita accettabili, stanno assumendo una dimensione planetaria i problemi della pace, delle guerra, dei diritti etnici, delle migrazioni ( con l’Europa non sta più al centro del mondo ma che può dare un grande contributo al futuro mondo multimediale, multietnico multiculturale) Mino mette al primo piano nelle parole della vita non l’utopia ma la speranza, che è esattamente il contrario della paura e della rabbia che generano nelle cittadinanze le frustrazioni oggi cosi diffuse.