ARISTIDE MARCHETTI

BIOGRAFIA

Conseguì il diploma di abilitazione magistrale durante il servizio militare a Salerno, si iscrisse all'Università, ma gli eventi bellici gli impedirono la prosecuzione degli studi. Minato nel fisico da una malattia polmonare, visse l'8 settembre del 1943 a casa, in licenza di malattia.
Agli inizi del 1944 lasciò Laveno trasferendosi a Varzo per trascorrere un periodo di riposo. Fu in questa circostanza che entrò nella Resistenza italiana, diventando uno dei più arditi partigiani prima con la Divisione Valtoce delle Fiamme Verdi e poi con la formazione autonoma (di prevalente ispirazione cattolica) di Alfredo Di Dio, "Marco".
Unito il gruppo di Alfredo Di Dio con quello di Beltrami nella "Brigata Patrioti Valstrona", Marchetti con il nome di battaglia di "Aris" visse tutte le complesse e sofferte vicende militari della formazione: dall'abbandono di Campello Monti e della Valle Strona, fino alla traversata invernale per raggiungere l'Ossola. Scampato nel febbraio 1944 alla trappola di Megolo nel quale caddero tra gli altri Filippo Beltrami “il capitano”, il giovanissimo Gaspare Pajetta, Gianni Citterio “Redi”, Antonio Di Dio, fratello di Alfredo, continuò a battersi nel nuovo raggruppamento creato e guidato da Alfredo Di Dio.
Come ufficiale e commissario politico della "Divisione Valtoce", oltre ad aver vissuto in prima persona la esaltante e sfortunata pagina della costituzione della Libera Repubblica dell’Ossola durata per quaranta giorni, dal 9 settembre al 22 ottobre 1944, partecipò a numerose azioni, fra cui la battaglia del Migiandone all'imbocco della Valle Anzasca (in cui cadde fra gli altri lo studente universitario varesino Marco Giani), divenendo una delle figure più prestigiose del mondo partigiano cattolico.
Caduta la Repubblica ossolana e sciolta la Giunta di Governo, modello democratico di quella che sarebbe stata l'Italia alla Liberazione, fu costretto come centinaia di altri partigiani, dopo una massacrante marcia sulle pendici innevate del Passo di San Giacomo, a riparare in Svizzera dove fu accolto nel campo di internamento per militari di Murren nell'Oberland bernese. Negli stessi giorni, il 24 novembre 1944, perse il cugino Anselmo, pure lui partigiano, fucilato dai nazi-fascisti a Nibbiano (PC).
Terminata la guerra, il 26 ottobre 1945 fu incaricato dal Cln di Laveno Mombello di costituire la locale sezione dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, di cui divenne l'anima e il presidente.
Entrato nella vita civile, Aristide Marchetti divenne dirigente d'azienda, in società commerciali a Milano e a Varese; membro del consiglio d'amministrazione della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, dell'Ortomercato e della Società Esercizi Aeroportuali di Milano (Sea). Legato da forte amicizia a Enrico Mattei, partigiano cattolico come lui e fondatore dell'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), militante nella Democrazia Cristiana, Aristide Marchetti costituì e diresse numerose pubblicazioni politiche e culturali.
Nel 1947 pubblicò il libro autobiografico Il Ribelle, la storia della sua scelta partigiana. Dal 1951 (anno in cui fondò L'Informatore, il periodico dell'amministrazione comunale) al 1956 fu sindaco democristiano di Laveno-Mombello e dal 1956 al 1962 presidente dell'amministrazione provinciale di Varese.
Deputato nella V e VI ( 1968-72 e 72-76) legislatura e senatore nella VII e VIII legislatura(76-79 e 79-83).

«La Base? Nacque così» di Aristide Marchetti

Dal senatore Aristide Marchetti riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lunga lettera che chiarisce alcuni aspetti relativi alla nascita del giornale e della corrente.
Caro Direttore, ho letto con attenzione e con commozione gli articoli dell’amico Franco Boiardi sulla nascita del giornale «La Base» nel più ampio ricordo di Marcora.
Approfitto, se me lo permetti, del documentato resoconto storico per rivelare il vero atto di nascita del giornale e quindi della corrente. Tutte le storie politiche e le cronache giornalistiche finora pubblicate riferiscono di incontri fra Marcora e Mattei. La verità è che «La Base» è nata dalla base e non dal vertice. Elezioni politiche del 1953. Mattei non si può più presentare per la legge Sturzo. Aveva anzi dovuto dimettersi da deputato prima della fine della legislatura.
Mattei aveva però progettato una grandiosa manifestazione partigiana a Milano, in piazza del Duomo. Ricordava quella che nel 1948 entusiasmò Milano come un nuovo 25 aprile 1945. Nel 1953 la manifestazione era solo di appoggio politico alla Dc (anche se parlò un candidato partigiano milanese, Umberto Rivolta, che non venne poi eletto).
Lo spettacolo imponente ma meno importante e meno interessante permise agli organizzatori Giovanni Marcora (Albertino) e Aurelio Ferrando (Scrivia), segretario generale della Federazione italiana volontari della libertà Fivl (presidente allora il generale Raffaele Cadorna, oggi Paolo Emilio Taviani), sorta dopo la scissione dei partigiani democratici dall’Anpi allora di pura obbedienza comunista, di soddisfare ancora una volta Mattei nella sua mobilitazione partigiana al servizio del partito della Democrazia Cristiana.
Ma il 4 Lettera pubblicata su «La discussione» il 7 luglio 1990. Aristide Marchetti (1920-1994), partigiano, poi sindaco di Laveno Mombello (Varese) e presidente della Provincia di Varese, quindi parlamentare democristiano, è stato tra i fondatori della Base, occupandosi in particolare delle riviste della corrente.
Il volontarismo e l’entusiasmo ancora intatti del partigianesimo democratico permisero di salvare quasi tutto il patrimonio organizzativo, poco più di dieci milioni di lire, del finanziamento procurato da Mattei.
Albertino, Scrivia, don Federico Mercalli, cappellano partigiano dell’Ossola e parroco di Villa Lesa, diocesi di Novara, e il sottoscritto pensammo di utilizzare il fondo manifestazione per dare una voce alle nostre opinioni politiche e per dare una forza alla nostra volontà politica. «Facciamo anche noi un gruppo di pressione»: era la nostra opinione. E incominciammo da un giornale. I soldi vennero depositati su un conto corrente del Banco Ambrosiano, intestato a don Federico e a me, a firme disgiunte (e io non firmai un solo assegno).
Io avevo già diretto il quindicinale dell’Associazione partigiani cristiani (Apc) «Il richiamo partigiano» e fondato e diretto, con Italo Uggeri e Alberto Grandi, il quindicinale dei Gruppi giovanili lombardi «Il Domani».
Presentai un progetto, un menabò, un gruppo di possibili collaboratori e in una riunione in via Brera 5, dove aveva sede il Raggruppamento di Dio, tutto venne approvato. Era un pomeriggio, ai quattro promotori si era aggiunto Gianmaria Capuani.
Ci avvicinammo un po’ alla volta al titolo del giornale, fino alla rubrica – curata da me – che volevo intitolare “Voci dalla base”. E fu proprio Gianmaria che disse per la prima volta «La Base». Terminologia marxista pura, “basisti” cioè complici di fatti delinquenziali, ce ne diranno di tutti i colori. Ma con la benedizione di Don Federico «La Base» nacque.
Con Albertino, Don Federico, Italo Uggeri cominciammo il giro d’Italia per creare una redazione, e, poveri illusi, come ci disse Baget Bozzo, un movimento politico. Portai l’Albertino a Roma da Giovanni Galloni. Achille Ardigò, Gianni Baget Bozzo. Giovanni era stato collaboratore de «Il Domani», quello milanese, con Donat Cattin, Malfatti, Sarti, Dal Falco e gli altri giovani leoni. Quando accettammo il trasferimento a Roma, come organo dei Gruppi Giovanili nazionali, dividendo la direzione con Amerigo Petrucci e Francesco Casa, con il secondo numero, proprio per un articolo di Giovanni Galloni contestato dai romani, Italo Uggeri e io chiudemmo l’avventura romana. Ritornammo a casa con la testata e la delusione pronosticata da Giuseppe Lazzati e Giuseppe Dossetti (che dovette in direzione difendere il nostro titolo di proprietà).
Puoi aver dimenticato, caro direttore, un incontro con i giovani dossettiani e lazzatiani milanesi, con padre Davide Turoldo e padre Camillo De Piaz, alla Corsia dei Servi, nel quale fosti relatore?
Achille Ardigò era il giovane maestro colto e coraggioso, tanto amato dai dossettiani cioè da noi tutti.
Gianni Baget Bozzo era stato il candidato nostro come delegato giovanile nazionale contro Cesare Dall’Oglio, regolarmente battuti dal delegato uscente Giulio Andreotti, dai suoi amici Franco Evangelisti e Franco Nobili, che elessero il Cesarone. Risultato: Giovanni entusiasta e arruolato; Achille incoraggiante ma non disponibile per impegni di lavoro; Gianni irridente e menagramoso. Baget doveva passare da altre esperienze religiose e politiche esaltanti o deprimenti, ma fuori dalla nostra comprensione longobarda.
Gli ingegneri Camillo Ripamonti e Gianmaria Capuani furono gli attivi e preparati organizzatori del primo gruppo di amici in provincia di Milano e di Novara. Italo Uggeri ci unì a Leandro Rampa, Luigi Granelli, Giovanni Cristini di Bergamo e di Brescia.
Preparammo il primo numero de «La Base» con in prima pagina un articolo di taglio con un titolone: “Apertura a destra o a sinistra?”. Era la grande scelta che doveva impegnare per dieci anni il mondo cattolico e il partito della Dc: il centrosinistra. Apertura a sinistra (governo con i socialisti): è lecita moralmente, è utile politicamente, è necessaria politicamente. L’articolo che commenta l’approvazione teologica di monsignor Colombo, teologo del Seminario milanese di Venegono, in un articolo su «Vita e Pensiero», era firmato da Leandro Rampa. Ventiquattr’ore dopo l’uscita del primo numero de «La Base» mi telefona Alberto (Cefis) per dirmi che Mattei vuol parlarmi a Roma.
Incontro Mattei in via del Tritone, sede dell’Agip. «Mi ha telefonato Fanfani arrabbiatissimo: che cosa stanno facendo i tuoi amici di Milano? Io non so niente: rispondo. Quel giornale, come si chiama?» chiede Mattei e attende la mia risposta. «La Base», dico. «Sì, è proprio quello. Non è d’accordo con voi. Io non so niente. Sono liberi: gli dico. C’è Vanoni che vuol parlare con te. Sentiamo cosa dice». Mattei non può darci ordini; però non prende ordini. Vuole sentire Vanoni che è il suo unico amico e maestro, prima di rispondere a Fanfani.
A casa di Vanoni. Vanoni dice: «Continuate. Non dovete solamente parlare. Dovete vivere nel partito, cominciare a discutere, insegnare, trascinare dalle sezioni, proprio dalla base. Convincete e conquistate le sezioni. Vita di partito, prima di tutto. Scrivete chiaro e comprensibile; argomenti attuali con sincerità e coraggio ma attenti alle critiche; siate democristiani nel pensiero e nell’azione e Fanfani non potrà dire niente. La verità è pazienza».
Gli occhi intensi e duri di Mattei mi fissarono per confermare il suo consenso. Poi sorrise anche, lievemente, senza aprir le labbra, come quando era contento. Ma fu Vanoni che volle «La Base». Quando nel 1955 Fanfani mi cacciò dalla Dc, Vanoni, Mattei, Pastore, Zaccagnini, perfino il Presidente Gronchi (in un colloquio al Quirinale telefonò a Giulio in mia presenza e a Gonella per i vecchi popolari) mi difesero preannunciando interventi al Consiglio nazionale della Mendola. Ma fu Vanoni che disse a Giovanni Galloni: «In un partito dove non ci può stare Marchetti non ci posso stare nemmeno io». Giovanni Di Capua nella sua presentazione dell’Antologia di «Prospettive» dice bene del nostro rapporto con Vanoni.
Preparata la redazione incominciammo a parlare della organizzazione del gruppo. Decidemmo per tutta l’Italia.
Don Federico e io andammo fino a Cosenza e arruolammo Riccardo Misasi, dopo aver reso omaggio a don Nicoletti, il don Sturzo calabrese. Ad Avellino Fiorentino Sullo che fu poi il primo basista a diventare ministro, poi Ciriaco De Mita e Gerardo Bianco; a Firenze Nicola Pistelli, Giovanni Giovannoni; a Venezia Vincenzo Gagliardi (con il più feroce amico Vladimiro Dorigo) erano i giovani degni e preparati che formarono il primo gruppo di amici nazionali.
Con Italo Uggeri parlammo a don Primo Mazzolari e a Guido Miglioli. Don Primo ci disse di sì dietro la trincea di libri che si alzava per mezzo metro sul piano della scrivania. Prima di uscire ci mostrò un dattiloscritto: «È la prossima commedia di Diego Fabbri. Me le manda sempre». Nella casa parrocchiale di Bozzolo, nella bassa mantovana.
A Guido Miglioli chiedemmo gli scritti rievocativi su monsignor Bonomelli. A Villa Carlotta di Belgirate, prenotata a buon prezzo da Don Federico, Gianmaria Capuani e Giovanni Galloni presentarono le relazioni programmatiche del nostro gruppo.
E incominciò la lunga marcia che portò «La Base» alle più alte responsabilità nel partito e nel Paese. Lunga, pericolosa a volte disastrosa.
Nel 1955 la condanna ideologica e disciplinare mia e della corrente; fu un grosso fatto interno del partito, come ho già ricordato, ma devo ricordare un altro fatto per presentare il quadro completo della situazione politica di allora. L’annuncio dell’espulsione mia venne presentato a Milano, sul quotidiano cattolico «L’Italia», organo della Curia e della Conferenza episcopale lombarda, con un articolo d’apertura della prima pagina a firma del direttore monsignor Pisoni, dal titolo: “Cavallo di Troia”.
Aristide Marchetti era un cavallo di Troia comunista nella cittadella democratica. Un altro fatto. Quelle idee, quei sentimenti, quell’ostilità, quella condanna si ripeterono anche nel 1963, otto anni dopo. Granelli a Milano, io a Varese candidati ben accetti del partito della Dc (anch’io fui eletto al Consiglio nazionale e al Congresso di Napoli del 1962, come rappresentante delle Associazioni provinciali del Nord), fummo umiliati dagli ambienti religiosi e perdemmo le elezioni, anche le Perpetue dei prevosti della diocesi milanese votarono liberale. Noi eravamo ancora traditori della Patria e della Chiesa.

Con Fanfani le ostilità si erano chiuse piuttosto in fretta. Colpa o merito anche di Santa Dorotea. Cacciato dalla Segreteria del partito e dalla presidenza del Consiglio dopo la ribellione dei dorotei, Fanfani incominciò il giro d’Italia per dire le sue ragioni. Venne anche nella mia provincia di Varese e nel cinema-teatro di Tradate, affollato da sei-settecento persone, poté parlare a lungo e alla fine del suo discorso chiedere scusa per un errore politico suo: contro di me e contro «La Base».
Fanfani finì per fare il primo governo di centro-sinistra, voluto da Aldo Moro, dieci anni dopo la nascita de «La Base».
Ma si può scrivere la storia – dicono a Milano – «cul cu par aria», capovolta. Avviene così che uno può trovarsi fuori dal partito se sta fermo mentre il partito, anziché «marciare verso sinistra», come diceva De Gasperi, «marcia verso destra». E così anche per il superficialismo gerarchico proprio degli storici: le guerre le fanno i soldati e le scrivono i generali. La guerra per la collaborazione coi socialisti l’han fatta i soldati de «La Base» e l’hanno vinta i generali che li volevano fucilare. È la storia vissuta e scritta da tanti generali politici.
Una lunga marcia dolorosa, paurosa, faticosa, con vittorie più personali che correntizie, ma con la pazienza, la sincerità e il coraggio chiesti da Vanoni.
Tutto questo col passare degli anni scompare. Sembra che tutto sia stato ben protetto e magari ben pagato, con simili padrini e padroni. La realtà è che per anni rischiammo l’eresia e la morte civile. Questi fatti sono minimi, della base Dc. Figure e fatti succedutisi nel tempo col passare degli anni si sovrappongono fino a diventare coincidenti.
Il presidente dell’Eni Mattei aveva bisogno dell’amico ministro Marcora nel Governo? Può sembrare così a giornalisti e storici frettolosi. In realtà Marcora è diventato ministro dodici anni dopo la morte di Mattei.
Quando vengono Cossiga, Rognoni, Martinazzoli, Goria è Marcora (o Mattei e Vanoni, scomparsi da anni?) che attira, che guida, che lancia, in una lotta coerente e semplice ma fruttuosa e concreta.
Mattei e Cefis sono uomini di rilievo nella storia di quegli anni. Riportarli con lo stesso rilievo nei nostri confronti non ha nessun riferimento. Con la realtà con loro non ci siamo mai messi sull’attenti, Marcora, io, gli altri. Non erano “padrini”, non eravamo “picciotti”.
E com’erano allora i rapporti tra noi? Anche qui: guardate i numeri, gli anni, l’età. Marcora era del 1922, Cefis del 1921, io del 1920. Mattei era del 1906. Tra di noi il “tu”, con lui il “lei”. Mattei era un padre, da noi rispettato e amato non tanto per il potere, prima come comandante generale dei partigiani cristiani, poi come capo di un grosso Ente di Stato, ma per la sua passione, l’idea fissa e la volontà accanita, nelle lotte comuni. Pretendevamo però il pieno rispetto.
«Democrazia» di Malvestiti e Meda, nel 1947 ospitò anche un mio richiamo al grande capo partigiano. Da uomo sensibile, semplice, umano aveva un’esplicita affettuosa amicizia per tutti noi.
Ma dire che Mattei aveva bisogno di noi, di Marcora, de «La Base» è dire il contrario della verità e dare un’importanza assolutamente fantasiosa a noi e alla corrente. Gli sembrava giusto che noi ci impegnassimo nella lotta democratica e nella società civile, sapeva che questo piaceva a Vanoni: questo gli bastava.
Con Cefis avevamo condiviso, Marcora e io, prima l’esperienza bellica (noi sottotenenti di complemento, lui in servizio permanente effettivo) poi l’esperienza partigiana, lui nostro comandante dopo la morte di Alfredo Di Dio, ma con la condizione partigiana della nostra canzone, scritta pochi giorni prima della morte in combattimento dal fratello Antonio Di Dio: «Non c’è tenente, né capitano, né colonnello, né generale: questa è la marcia dell’ideale».
La nascita de «La Base» quindi non è avvenuta «dopo incontri promossi da Mattei con Cefis e Vanoni». Neanche dopo ci furono incontri del genere. Pensa, caro direttore, che erano tutte persone, in particolare Mattei e Marcora, che non appena un interlocutore estraneo apriva bocca loro capivano dove andava a finire; un misto di intelligenza, furbizia, istinto impressionanti. Ascoltavano poche parole e poi pensavano alla risposta o ad altro. Quanti illusi credono di aver fatto un “lungo discorso” ai Nostri. Loro non avrebbero avuto bisogno di “incontri” per fare «La Base». Non avevano tempo, voglia, bisogno. Né l’uno, né l’altro, né gli altri.
Mattei era come Marcora presentato da Boiardi: uomo di poche ma ben profonde e ordinate idee, di poche letture e di molti fatti, di poche e a volte confuse parole e di molte limpide e splendenti azioni.
Mattei per anni ha parlato in pubblico in modo pietosamente cantilenante. Era nato ad Acqualagna, ma – io dicevo allora – era proprio lui una lagna. Mattei però pensava, decideva, ordinava di giorno e di notte. Franco Evangelisti mi chiese dopo aver visto il film di Rosi: «Ma è vero che lavorava anche di notte?».
Nel 1946, in una Milano senza vita notturna e senza tanti servizi, una sera, verso le undici, riuscì a telefonarmi (ero in casa del conte ingegner Aldo Bonacossa, industriale e presidente del Club Alpino Accademico d’Italia) per dirmi che mi aveva scelto in sostituzione di Cefis nella Commissione Riconoscimento Qualifiche Partigiane della Lombardia e della provincia di Novara.
Ci meravigliammo per l’ora: una telefonata a quell’ora era sbalorditiva anche nella Milano capitale del lavoro. Mattei aveva completato una decisione e l’orologio non contava: finiva dandone notizia all’interessato. Il problema era risolto. “In pectore” ne restavano tanti altri ma tutti futuri. Tra questo però non c’era «La Base».
Mattei ne ha sentito parlare per la prima volta da Fanfani. Sembra il colmo dei colmi ma è la verità. Ho pensato di precisare notizie sulla nascita e sui primi passi de «La Base». Per il resto mi sembra che la ricostruzione storica e la descrizione del personaggio Marcora di Franco Boiardi siano vere e giuste, interessanti e intelligenti. Anch’io gliene sono grato. Come anche a voi.