Una sensibilità unica di Camillo Ripamonti
Le testimonianze che si possono rendere su "Albertino" rischiano d'essere sempre incomplete, tanto è stato l'impegno che Marcora profuse nella sua non lunga, e tuttavia intensissima, vita, tanti sono gli insegnamenti che andrebbero tratti dalle attività di un personaggio davvero unico, che sapeva farsi apprezzare - ed anche farsi volere bene — da amici ed avversari, da chiunque avesse la ventura d'incontrarlo nei suoi poliedrici interessi, umani e politici.
"Albertino" fu un politico singolare. Trascorse più tempo a preparare una cordata che mirasse alle idee del futuro, che non a tessere una organizzazione per la contemporaneità. Certo, non gli erano estranei gli interessi concreti ed immediati; al contrario, egli fu fra i rari politici che badavano al sodo, alle cose da fare, subito, e sulle quali impegnare, senza indugi, la propria parte di responsabilità. Ma la sua esperienza va letta in maniera più compiuta, riflettendo sulle ragioni che lo condussero, lui uomo d'azione, a circondarsi di intellettuali ai quali affidare la progettazione del domani.
Ricorda, nella sua testimonianza qui prodotta, Giovanni Galloni taluni momenti significativi di quella irripetibile vicenda che fu la Base, un movimento di idee che andava a scavare in un macrocosmo pigro, aduso a non porsi i problemi dell'avvenire dando per scontato ch'esso non potesse essere che più fulgido del presente. Di quei momenti andrebbero analizzati risvolti ancor più profondi: perché ricchissima fu quella stagione, alla quale Marcora seppe sempre imprimere un personale segno; e perché quelle esperienze valgono a capire meglio come si è formata una classe dirigente, ora in prima linea politica, che non aspirava a sostituire altri gruppi, ma solo ad adeguare la politica ai tempi mutati.
Si fa presto a dire rinnovamento.
Specie oggi che tutti ne parlano, ognuno cercando più nuove immagini, facciate rinfrescate, che indirizzi e visioni volti al futuro. Si fa presto a conclamarsi progressisti, se poi, nei fatti, si tende ad ostacolare ogni pur timida novità, ci si preoccupa della difesa d'una antica, certamente gloriosa, bandiera, senza però riprenderne lo spirito rinnovatore, senza lasciar spazio ad idee più fresche, a mutamenti sostanziosi nel sistema dei partiti, senza abbandonare il bagaglio della demagogia spicciola e farsi responsabili: appunto classe dirigente.
Giovanni Marcora fu responsabile. Solo così si spiega la sua lunga attesa per un proprio, personale impegno politico. Solo così si spiega come egli sia potuto passare dalla vita partigiana al rango di statista, dei più apprezzati fra l'altro. '
Se rileggessimo, tutti, al di là degli steccati di partito, ed ovviamente al di là delle divisioni fra gruppi e gruppuscoli tradizionali nella vita interna alla democrazia cristiana, con occhio davvero vigile l'intera esperienza di "Albertino" Marcora, forse ci aiuteremmo l'un l'altro a comprendere meglio gli stessi ultimi quarant'anni di vita democratica. Scopriremmo il significato dei "ribelli" cristiani, che volevano cambiare l'Italia, ma per farla avanzare sul terreno della libertà e della democrazia. Scopriremmo il senso di responsabilità che fu presente a tanta parte del movimento clandestino, che mirava a far maturare una coscienza nuova, civile ancorché politica, fra la gente, fra le nuove generazioni soprattutto, perché esse erano sbandate, corrotte da un propagandismo che le aveva gettate allo sbaraglio e, una volta deluse, esposte al rischio di facili abbandoni nei miraggi di inesistenti, impossibili paradisi terreni.
Scopriremmo che la repubblica è stata animata, non sui giornali e nella pubblicistica di comodo, ma nella realtà di ogni giorno, da un popolo di formiche: quello di cui parlava Tommaso Fiore, a proposito della sua Puglia, ma che, a maggior ragione forse, è rintracciabile in tutte le aree nazionali dove si manifestavano, in operoso silenzio, come diceva Aldo Moro, anima e volontà di andare avanti, di non fermarsi a contemplare l'avuto o il presunto irraggiungibile. Indubbiamente "Albertino" si qualificò per il suo radicamento lombardo, per quel suo sfrenato amore per tutto ciò che la sua terra d'origine sapeva dare alla comunità nazionale.
Il suo fastidio, persino ossessivo, per tutto ciò che non fosse efficiente e produttivo esprimeva una connotazione ed una condizione assieme, prima che il segno d'un carattere forte, deciso e di una volontà laboriosa, instancabile. La sua alta considerazione per il mondo delle campagne, oltre che per quello delle ciminiere e degli uffici, è legata a quella sua origine ed a quel desiderio - comune a tanti padani - di vedere crescere la società ricorrendo agli strumenti i più nuovi e sofisticati, senza tuttavia cancellare la terra, fonte primaria della stessa vita umana.
Appunto per questo Giovanni Marcora è stato l'uomo politico più popolare della Lombardia. Come sottolineato anche, in un club milanese, dal professor Rumi, Marcora ha rappresentato - e, forse, ancor più avrebbe potuto rappresentare nel tempo — l'espressione più autentica e genuina della gente lombarda, come da decenni non si ritrovava - e, forse non si ritroverà più —, pur nella numerosa schiera di uomini politici lombardi presenti in tutti i partiti.
Rammento, in proposito, un articolo -"Linea ambrosiana e linea lombarda" -, apparso sulla rivista Itinerari diretta da Francesco Rossi, un amico la cui vicenda umana si è troppo presto conclusa. L'anno, il 1967, ahimè quasi vent'anni fa.
Il luogo: la sede della Dc di Milano. "Chi parla, seduto nervosamente su un divano, alzandosi di scatto come per inseguire altre idee o una telefonata, non è il direttore generale di una industria all'avanguardia, ma Giovanni Marcora, segretario provinciale della Dc milanese. Marcora, è un personaggio quasi leggendario per la sinistra democristiana di tutta Italia. Marcora, che sembra rappresentare l'uomo dell'organizzazione e dell'efficienza anche in politica, a ben guardare impersona, nel suo generoso volontarismo e nell'intransigente spirito critico ("sono entrato nella resistenza per desiderio di libertà e ne sono uscito civile", egli dice) le ansie, le contraddizioni e, soprattutto, il realismo politico della sinistra democristiana milanese...Marcora non ambisce ad essere leadership ideologica, non è soltanto il manager politico che sa raccogliere i voti per la Dc e quelli preferenziali per i suoi amici, ma il politico conoscitore di uomini e di situazioni che ha compreso come, muovendosi da posizioni di sinistra, si possano interpretare le esigenze di un elettorato popolare qual è quello di Milano e del suo vasto hinterland".
Di quel periodo milanese quasi non esistono tracce: almeno nelle ricostruzioni. Eppure, basterebbe andare a spulciare la collezione del Popolo lombardo, riguardare le stesse annotazioni di Marcora, rileggere, con più distacco, se si vuole, purché con spirito di verità, il complesso delle vicende che precedettero la fase della contestazione giovanile ed operaia, che fra l'altro coincise col matricolato di "Albertino" nella vita parlamentare, per comprendere cosa Marcora ha rappresentato per un'altra leva di politici, dopo quella che gli era stata a fianco nella fase più gloriosa del noviziato e della costruzione della corrente di Base.
Di quei momenti varrebbe la pena di rammentare le tensioni, le passioni, le incomprensioni. Di alcune dice Giovanni Galloni, nel discorso del 6 febbraio 1986 al Museo del Duomo di Milano il cui testo viene qui riproposto anche per rispondere ad un desiderio espresso da tanti giovani presenti a quell'incontro, organizzato dal Centro culturale "Puecher", così bene animato dal suo presidente, avvocato Dittrich.
Mi limito a ricordare alcuni riferimenti - Nicola Pistelli, Vincenzo Gagliardi, e gli incontri di via Brera, via Santa Eufemia, via Cosimo del Fante - così cari alla memoria di quella limitata pattuglia che, con Marcora e sotto il suo quotidiano stimolo, animò le battaglie della Base contrassegnando un lungo periodo, certa-mente il più fervido di idee e di apporti di nuove leve intellettuali e giovanili alla democrazia cristiana.
Anche Giovanni Di Capua porge qui un suo contributo alla conoscenza di "Albertino" Marcora, scegliendo la testimonianza su uno strumento di azione politica, la agenzia Radar, di cui egli stesso è stato inventore e attore. Non è la storia di quella agenzia, che viene proposta, ma la spiegazione della sua origine, cui moltissimo si deve appunto alla fantasia di Marcora, lombardo deciso a far valere nuove idee in campo nazionale e però attento a stabilire un caposaldo nell'osservatorio politico per eccellenza, Montecitorio.
Ai giovani che poco sanno o che troppo poco conoscono se non per informazioni distorte fornite da chi non aveva interesse alcuno ad esporre fatti, situazioni, personaggi e idee per ciò che veramente furono e per ciò che effettivamente erano in grado di significare nella vicenda politica nazionale, i contributi di Giovanni Galloni e di Giovanni Di Capua, possono tornare utili: se non altro, a sapere come si faceva politica un tempo, nel disinteresse personale, pensando a far crescere gli altri, a sentirsi paghi solo di aver partecipato alla definizione di un grande rivolgimento ideale.
Non si potrebbe concludere una sia pur rapida carrellata su Giovanni Marcora senza rammentare gli uomini che nella sua vita, ed in quella della Dc, hanno lasciato una loro impronta profonda.
Sono, quasi elencandoli: dopo Alcide De Gasperi, il presidente della ricostruzione, Enrico Mattei, soprattutto per quello ch'egli rappresentò nella lotta di liberazione, "scuola di coraggio civile e di virtù eroiche", oltre che per la fondazione dell'Eni; e, ancora, Giovanni Gronchi, con le speranze che suscitò col suo avvento al Quirinale, ed Ezio Vanoni, con le sue lezioni di politica economica non disgiunte da consigli di vita e da una solidarietà nella medesima battaglia interna alla democrazia cristiana; e, infine, Aldo Moro, cui "Albertino" guardava con rispetto, avvertendone il fascino intellettuale, criticandone le lentezze operative, e che, tuttavia, seppe tradurre le prospettazioni politiche della Base nella politica dei governi di centro sinistra, portando tutto il partito laddove uno sparuto nugolo di giovani aveva da tempo detto che fosse giusto andare.
Marcora, però, ebbe per somma maestra la vita, i fatti della gente operosa, le idee miranti all'avvenire. Quella fu la sua vera scuola. Su di essa fondò la sua azione di governo.
Per questo riuscì a farsi capire anche all'estero, dove l'Italia di Marcora veniva guardata con rispetto, non coi paraocchi di detrattori o imbonitori, individui estranei ad una cultura europea quale "Albertino", l'opposto dell'intellettuale, pure possedeva.
Una storia indimenticabile_di Giovanni Galloni
Ricordiamo Giovanni Marcora, a tre anni dalla sua scomparsa, con la stessa emozione con la quale, ai primi di febbraio del 1983, apprendemmo sgomenti che non poteva più essere fra noi colui che era stato la guida, il punto di riferimento e di certezza non solo nostra, ma di un’intera generazione di democratici cristiani.
La mia non vuole essere oggi una commemorazione, ma la testimonianza di una grande avventura politica e intellettuale, di una meravigliosa esperienza durata trent’anni, iniziata quando ancora eravamo poco più che ragazzi e vissuta tanto intensamente che ci ha fatto diventare adulti e forse già anziani all’improvviso, quasi senza che ci fossimo accorti del trascorrere del tempo e del lungo cammino insieme percorso.
Conobbi per la prima volta Marcora a Roma nell’estate del 1953, all’indomani di quel 7 giugno che segnò una sconfitta elettorale della De, ma soprattutto la sconfitta politica del centrismo degasperiano. Venivamo, nella De, da due esperienze diverse.
La mia esperienza nella resistenza, anche perché di qualche anno più giovane di lui, era stata breve e fugace, quasi solo una tappa di passaggio verso l’impegno di partito subito intenso nel movimento giovanile emiliano e nazionale, nella milizia dossettiana sino al 1951 e poi nella fondazione di iniziativa democratica, che avrebbe dovuto continuare la linea di una sinistra democristiana riformista, ma dalla quale mi ero allontanato già alla fine del 1952 notando i segni di una spinta puramente generazionale e di potere.
L’esperienza di Albertino - questo il nome di battaglia con il quale agli amici veniva spontaneo chiamare il Marcora - era, invece, profondamente radicata nella resistenza. Qui, anche per la sua istintiva modestia, il suo nome non ‘ era divenuto famoso come quello di Cadorna, di Mattei e di Longo, ma aveva avuto un ruolo da protagonista quando, a soli ventitré anni, era
diventato vicecomandante, e per lunghi periodi i comandante effettivo, dell’intero raggruppamento delle divisioni partigiane “Fratelli Di Dio” operanti in Lombardia e Piemonte e del 1 quale comandante era Alberto (Eugenio Cefìs), commissario politico il Vignati e rappresentante nel comando generale del corpo volontari della libertà, Enrico Mattei.
Albertino aveva guidato così, giovanissimo, le formazioni partigiane nella repubblica dell’Os- sola e il 25 aprile per la liberazione di almeno quattro province: Milano, Novara, Varese e Como. Poi, come tanti combattenti della libertà, era rientrato nell’ombra, ma continuava ad esercitare un fascino incredibile sulle migliaia j di partigiani combattenti che lo avevano avuto;
come loro comandante e sulle famiglie dei caduti perché tutti riconoscevano in lui, per la sua generosità, l’umanità del suo tratto (anche con i deboli e Ì vinti) la rapidità delle decisioni, la sincerità dei giudizi, una guida indiscussa e un vero fratello su cui si poteva confi-dare così in tempo di guerra come in tempo di pace.
Dall’ombra lo trasse - quasi involontariamente Enrico Mattei alla vigilia delle elezioni del 7 giugno 1953.
Mattei era stato sollecitato da De Gasperi a organizzargli a Milano una grande manifestazione di partigiani cristiani ai quali voleva scussa e un vero fratello su cui si poteva confidare cosi in tempo di guerra come in tempo di pace.
Dall’ombra lo trasse - quasi involontariamente Enrico Mattei alla vigilia delle elezioni del 7 giugno 1953. Mattei era stato sollecitato da De Gasperi a organizzargli a Milano una grande manifestazione di partigiani cristiani ai quali voleva parlare in piazza Duomo per rivendicare, in un importante comizio, in polemica aperta con i comunisti,il fondamentale ruolo cattolico nella resistenza.
Mattei si rivolse ad Albertino e lo incaricò di tutta la organizzazione offrendogli anche, per le spese, una somma cospicua per quell’epoca. Ma Albertino, mi raccontò un giorno con giustificato orgoglio non aveva toccato neanche una lira perchè bastò solo un suo appello agli amici e ai compagni di lotta della resistenza perché essi giungessero da tutta la provincia di Milano, e da oltre, con i loro mezzi, a loro spese, usando le loro macchine, affittando pullman e camion sino a gremire all’inverosimile piazza del Duomo in un comizio che rimase memorabile.
Ma tutta questa gente che aveva partecipato alla resistenza e poi si era reinserita silenziosamente nella vita civile, non la si poteva chiamare solo per applaudire un comizio. Erano migliaia di uomini, centinaia di donne - le famose staffette - ormai maturi e pronti per partecipare in modo attivo alla vita politica. Essi non potevano accettare che sulla ribalta rima- i politici di professione, che i valori per i quali essi avevano combattuto, “ribelli per amore” fossero messi in discussione, come stava avvenendo; quei valori dovevano invece difesi con la loro diretta partecipazione.
Di questo Albertino, con la sua istintiva sensibilità si era reso ben conto. Di questo dovette ; nei giorni che seguirono il comizio di . del Duomo con i suoi amici dell’epoca partigiana, come la medaglia d’oro Rino Pacchetti,Bruno Bossi e Aristide Marchetti di con Gian Maria Capuani di Novara che i dal dossettismo, con don Federico die era stato cappellano delle’sue brigate, Leandro Rampa delle Acli di Bergamo, con Ilo Ripamonti e con tanti altri.
La conclusione fu che occorreva riprendere una iniziativa per portare aria nuova nella vecchia Dc milanese di palazzo Clerici, ma anche nell’ intera regione ed oltre, .dove una tendenza conservatrice ' sembrava andare in direzione sa dagli ideali cattolici e popolari, della tenza. Essa sbarrava la strada alle giovani razioni ed era la causa di un declino del partito reso ormai visibile dai deludenti risultati orali del 7 giugno.
Tra le altre iniziative bisognava dar vita ad un no di stampa. A questo scopo Marcora ,si mosse in direzione di Achille Ardigò e Gianni Baget, ma tutti e due avevano fatto il mio nome.
Per questo Marcora, accompagnato da Aristide Marchetti, era venuto a Roma per incontrarmi. Lui aveva trentanni ed io poco più di venticinque. Ci intendemmo subito.
Avremmo fatto insieme un quindicinale di cui avrebbe assunto la direzione Aristide Marchetti e che poi fu chiamato La base, quasi a significare che doveva esprimere una voce di rinnovamento e di cambiamento della De che proveniva dalla periferia e restava fuori dai giochi di potere c di vertice. Lui avrebbe lanciato un appello ad un personale completamente nuovo per l’esperienza politica, quello degli ex partigiani cattolici del nord-Italia; io avrei richiamato a raccolta tutti i giovani dispersi dell’ex dossettismo e quelli disponibili del movimento giovanile.
L’appuntamento fu fissato per il 29 settembre alla villa Carlotta di Belgirate, sul Lago Maggiore, dove Albertino era di casa perché erano luoghi delle sue imprese e dei suoi ricordi partigiani. Qui si svolse in un’atmosfera di grande Un gruppo di giovani e di meno giovani pro-venienti dalle esperienze resistenziali dell’anti-fascismo, intuisce che il superamento della crisi non può avvenire né attraverso lo scontro elettorale, né attraverso lo scontro ideologico.
Il problema è essenzialmente e fondamentalmente politico. Si tratta di ricercare a sinistra nuove alleanze per allargare l’area della democrazia e garantire la formazione di una maggioranza parlamentare sufficientemente ampia e stabile.
Dopo le esperienze, vissute dal movimento dei cattolici democratici, di una sinistra sociale ed ideologica, nasce cosi sotto la guida di Mar- cora la prima sinistra politica della De incomincia a maturarsi il discorso del centro sinistra basato sul metodo che, nell’azione politica, privilegia il dialogo, la comprensione ed il rapporto tra partiti anche di estrazione ideologica diversa.
Ma il discorso non rimase solo fra noi giovani o affidato alle colonne del giornale dal quale pure dialogavamo con De Gasperi, al quale assicuravamo il nostro rispetto, e con Togliatti o lo Spettatore italiano di Franco Rodano, i quali temevano che una nostra apertura limitata solo ai socialisti conducesse al risultato d’un ulteriore isolamento del partito definito allora della classe operaia.
Il discorso si allargava anche ad altri personaggi.
Marcora fin dall’inizio aveva guidato alcuni di noi-, ad una visita di cortesia al suo amico
entusiasmo ,il convegno di fondazione della Base. Ci mettemmo subito al lavoro sotto la guida e lo sprono organizzativo di Albertino. Da Bergamo Rampa ci presentò un ragazzino che portava ancora i calzoni corti: si chiamava Luigi Granelli. Il 1° novembre usciva il primo numero de LA BASE.
L’effetto fu sconvolgente. Se ne preoccupò in primo luogo De Gasperi, che nel frattempo era diventato segretario politico non senza contrasti dell’ala più conservatrice del partito dopo che - fallita la riedizione del centrismo - il governo si era costituito sulla base di un monocolore democristiano presieduto da Pella, chiamato a quell’incarico più dalla scelta di Einaudi che non dalla decisione del partito.
Dalle prime informazioni avute sul convegno di Beigirate, De Gasperi credette fosse una iniziativa di Mattei. E siccome, di Mattei, De Gasperi aveva una grande stima, lo convocò per chiedergliene ragione.
Di quel colloquio De Gasperi - Mattei, so quello che quasi subito Mattei riferì ad Albertino. In realtà, contrariamente a quanto la gente pensava, Mattei non era stato informato dell’iniziativa. Tuttavia - cosi poi riferì quasi divertito ad Albertino - vedendo la preoccupazione di De Gasperi, capì subito che si doveva trattare di una cosa importante e non smentì, né affermò la sua paternità: disse solo che si trattava in gran parte di amici da lui personalmente conosciuti e che né De Gasperi, né il partito avrebbero avuto di che temere dalla loro azione.
In realtà non ci proponevamo di muoverci in opposizione a De Gasperi. Anzi intendevamo aiutarlo a liberarsi delle scorie che lo legavano a posizioni conservatrici, poiché il partito aveva bisogno di un grande cambiamento interno e non solo organizzativo, ma anche di linea politica. La vecchia struttura del partito degaspe riano, concepita come puro supporto all’azione del governo, non reggeva più; d’altra parte, anche la linea centrista era in crisi non solo elettoralmente(la legge maggioritaria era fallita) ma anche politicamente, perché risultava impossibile conciliare dentro la stessa formazione di governo i socialdemocratici, proiettati alla ricerca di un chiarimento con i socialisti, e i liberali, che nelle posizioni di Malagodi si collocavano sempre più a destra alla ricerca del consenso del grande padronato.
D’altra parte, la De non poteva neppure seguire Pella, che rovesciava di fatto la politica degasperiana, caratterizzata da una linea anti- negra lista della alleanza cattolici-laici in alternativa sia con i comunisti che con la destra estrema e la sostituiva con una linea che cercava di non avere più nemici a destra e di costituire, in nome di un rinascente nazionalismo e di un generale sentimento antipartitico, uno schieramento nel quale, in prospettiva, avremmo potuto contare, tra i partiti della resistenza, forse solo sull’alleanza liberale.
Erano i tempi in cui Guareschi oltraggiava pubblicamente De Gasperi dipingendolo nell’atto di pugnalare alle spalle l’Italia e lo diffamava come uomo al servizio dello straniero.
Fu proprio sul finire dell’inverno ‘53 - ’54, in occasione del processo contro Guareschi che Albertino seppe che De Gasperi, costretto a lunghe attese al tribunale di Milano per essere interrogato dai giudici, era lasciato solo dai suoi amici - e pure ne aveva avuti tanti anche a Milano nei tempi del suo maggior successo politico. E con quella calda sensibilità umana oltre che politica, che lo distingueva, Albertino volle essere in quei momenti vicino a De Gasp eri, mi pare con Ripamonti e con pochi altri amici della base.
Si discuteva di politica, di “apertura a sinistra” e della ostilità a questo disegno delle gerarchie ecclesiastiche, senza che di ciò De Gasperi si scandalizzasse in alcun modo; ma solo ci ammoniva che ancora non erano maturi i tempi; perché quando fossero stati maturi i tempi per un governo con i socialisti, neanche la chiesa si sarebbe più opposta, perché -..aggiungeva De Gasperi con un amaro sorriso - “se si fosse dato retta ai preti neppure l’unità d’Italia si sarebbe portata fare”.
Questo - dell’apertura a sinistra — fu, oltre al tema del rinnovamento del partito, uno dei punti qualificanti della battaglia politica della base. Ne aveva già parlato Leandro Rampa nel primo numero de La base. Se non si voleva far correre al paese il pericolo di una profonda involuzione e alla De quello di una sua trasformazione in partito conservatore costretto alla fine a fare i conti con il Pei. da posizioni sempre meno democraticamente garantite, occorreva allargare la base della democrazia politica, consentendo ad un partito come quello socialista di inserirsi a pieno titolo nel sistema con entusiasmo, il convegno di fondazione della base .Ci mettemmo subito al lavoro sotto la guida e lo sprone organizzativo di Albertino. Da Bergamo, Rampa ci presentò un ragazzino che portava ancora i calzoni corti: si chiamava Luigi Granelli.
Il 1° novembre usciva il primo numero de La base.
L’effetto fu sconvolgente. Se ne preoccupò in primo luogo De Gasperi, che nel frattempo era amici - e pure ne aveva avuti tanti anche a Milano nei tempi del suo maggior successo politico. E con quella calda sensibilità umana oltre che politica, che lo distingueva, Albertino volle essere in quei momenti vicino a De Gasp eri, mi pare con Ripamonti e con pochi altri amici della base. Si discuteva di politica, di “apertura a sinistra” e della ostilità a questo disegno delle gerarchie ecclesiastiche, senza che di ciò De Gasperi si scandalizzasse in alcun modo; ma solo ci ammoniva che ancora non erano maturi i tempi; perché quando fossero stati maturi i tempi per un governo con i socialisti, neanche la chiesa si sarebbe più opposta, perché -..aggiungeva De Gasperi con un amaro sorriso - “se si fosse dato retta ai preti neppure l’unità d’Italia si sarebbe portata fare”.
Questo - dell’apertura a sinistra — fu, oltre al tema del rinnovamento del partito, uno dei punti qualificanti della battaglia politica della base. Ne aveva già parlato Leandro Rampa nel primo numero de La base. Se non si voleva far correre al paese il pericolo di una profonda involuzione e alla De quello di una sua trasformazione in partito conservatore costretto alla fine a fare i conti con il Pei. da posizioni sempre meno democraticamente garantite, occorreva allargare la base della democrazia politica, con-sentendo ad un partito come quello socialista di inserirsi a pieno titolo nel sistema democratico. Un gruppo di giovani e di meno giovani pro-venienti dalle esperienze resistenziali dell’anti-fascismo, intuisce che il superamento della crisi non può avvenire né attraverso lo scontro elettorale, né attraverso lo scontro ideologico.
Il problema è essenzialmente e fondamentalmente politico. Si tratta di ricercare a sinistra nuove alleanze per allargare l’area della democrazia e garantire la formazione di una maggioranza parlamentare sufficientemente ampia e stabile.
Dopo le esperienze, vissute dal movimento dei cattolici democratici, di una sinistra sociale ed ideologica, nasce cosi sotto la guida di Mar- cora la prima sinistra politica della De incomincia a maturarsi il discorso del centro sinistra basato sul metodo che, nell’azione politica, privilegia il dialogo, la comprensione ed il rapporto tra partiti anche di estrazione ideologica diversa.
Ma il discorso non rimase solo fra noi giovani o affidato alle colonne del giornale dal quale pure dialogavamo con De Gasperi, al quale assicuravamo il nostro rispetto, e con Togliatti o lo Spettatore italiano di Franco Rodano, i quali temevano che una nostra apertura limitata solo ai socialisti conducesse al risultato d’un ulteriore isolamento del partito definito allora della classe operaia.
Il discorso si allargava anche ad altri personaggi.
Marcora fin dall’inizio aveva guidato alcuni di noi-, ad una visita di cortesia al suo amico Mattei.
Mattei ci parlò a lungo della sua iniziativa, dell’importanza per il futuro sviluppo industriale italiano e per la politica dell’occupazione, della lotta intrapresa contro il monopolio delle “sette sorelle” per liberalizzare gli approvvigionamenti energetici e aprire all’Italia uno spazio economico e commerciale con i paesi produttori del petrolio. Ma, con quella civetteria chi lo distingueva, Mattei ci disse anche che non si intendeva di politica e che non poteva darci consigli. Consigli che ce ne avrebbe, invece, potuto dare una persona che egli stimava sopra ogni altra, il suo amico Ezio Vanoni.
Ci recammo quindi su invito di Mattei da Vanoni e quello fu per tutti noi. un incontro determinante.
Vanoni ci mise subito al corrente che De Gasperi, appena eletto segretario, lo aveva inca-ricato di preparare un piano che avesse come obiettivo la piena occupazione e il riequilibrio nord - sud. Stava lavorando con il professor Saraceno e un gruppo di esperti in prevalenza della Svimez.
Si trattava di formulare una ipotesi di svi-luppo che consentisse il graduale passaggio di occupati e sottoccupati dall’agricoltura all’industria. E questo era possibile, a condizione che l’intero paese avesse compiuto lo sforzo di garantire, almeno per cinque anni, una crescita del reddito nazionale del 5% annuo; che tutto il risparmio fosse investito in attività produttive; che l’aumento dei salari avesse seguito e non preceduto l’incremento produttivo; che si fosse garantita la stabilità monetaria e raggiunto l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti con l’estero; che le imprese pubbliche, l’Iri e l’Eni in primo luogo, avessero assecondato lo sforzo.
Il problema, tuttavia, era essenzialmente poli-tico. Occorreva, cioè, ritrovare la convergenza più ampia tra le forze politiche e tra quelle sociali, per impegnarle nell’obiettivo comune.
Per questo Vanoni si dichiarava molto inte-ressato al discorso politico che la base aveva iniziato per l’allargamento a sinistra della area democratica come punto di partenza di una più ampia solidarietà nazionale; cosi come era inte-ressato ad un dialogo con i sindacati, per ottenere in vista della piena occupazione - una loro disponibilità a convergere con le forze economiche produttive al fine di concordare quella che oggi chiameremmo una politica dei redditi.
Dall’incontro con Vanoni ci rendevamo conto quanto grande fosse l’importanza del nostro ruolo.
La prima significativa prova ci attendeva per il V congresso nazionale che si svolse a Napoli gli ultimi giorni di giugno 1954.
La base, avendo come suo caposaldo Milano, aveva raccolto in tutta Italia (vigeva allora un rigido sistema mag-gioritario) un numero di delegati che toccavano quasi il 13% (200 mila voti congressuali su 1
milione e 600 mila).
Le altre liste concorrenti erano quattro. La maggioranza relativa era con larghezza di iniziativa democratica guidata da Fanfani; allora rappresentava la nuova generazione, la seconda, alla quale De Gasperi si accingeva a cedere il potere nel partito. Vi era poi la corrente sindacale di forze sociali, guidata da Pastore, e infine il gruppo della tradizionale sinistra gronchiana. Era, invece, sparita la vecchia concentrazione degasperiana: di essa rimaneva in vita solo un emblema giovanile rappresentato da Andreotti con la lista denominata primavera.
I gronchiani puntavano sulla modifica del sistema elettorale in senso proporzionale. La base poteva essere decisiva per far prevalere il sistema proporzionale, ma la mediazione di Vanoni, alla quale non potevamo sottrarci, ci portò a confluire nella lista di iniziativa democratica. Ripamonti ed io entrammo nel consiglio nazionale.
La nuova maggioranza, salita al potere anche con il nostro concorso, ci rese, però, subito la vita assai difficile.
Quelli furono certamente i momenti più drammatici della vita politica di Albertino.
Fanfani premeva pesantemente su Mattei per eliminare la presenza della base e Marcora si trovava in difficoltà, preso com’era tra il debito di amicizia verso Mattei, la cui opera non voleva danneggiare, e l’impegno politico assunto con tutti noi per continuare, a costo di qualsiasi rischio, un’azione politica nella quale profondamente credeva e sulla quale aveva fondato i suoi ideali con lo stesso spirito con cui aveva affrontato la resistenza.
D”altra parte iniziativa democratica aveva sì una forte carica di rinnovamento organizzativo, che le consenti di gettare le basi di una nuova struttura di partito con un personale più attivo e più capace di essere presente nella società, anche se più spregiudicato rispetto al vecchio personale degasperiano; ma sul piano politico, iniziativa democratica ripeteva con il governo Scelba una ormai stantia formula centrista; esso costituiva certo sul terreno democratico un progresso rispetto al monocolore Pella, ma era privo di prospettive a causa della crescente disarticolazione dei partiti della coalizione.
Esisteva quindi per noi uno spazio per continuare sulla linea politica della proposta nuova di un centro sinistra, di un allargamento della alleanza fino ai socialisti, anche per creare le condizioni per la realizzazione dello schema di sviluppo e del reddito della economia italiana che Vanoni aveva preannunciato nel congresso e che aveva reso noto nei mesi successivi sollevando un grande interesse, molti consensi nelle sedi più qualificate, ma forse ancora maggiori riserve e più intense critiche. Il padronato più retrivo respingeva con forza ogni idea d programmazione; i sindacati rifiutavano una colla-borazione che avrebbe attenuato la loro spinta conflittuale.
La decisione presa, in comune accordo con Albertino, fu quella di interrompere la pubblicazione della base, ma di riprendere di li a poco con una nuova pubblicazione che avesse meno carattere correntizio e più natura culturale: nasceva cosi Prospettive, con la collaborazione dei più giovani tra cui Di Capua e Chiarante, alla quale si affiancò ben presto una pubblicazione curata direttamente dai giovani che erano confluiti con noi dal movimento giovanile, Il ribelle e il conformista, curato da Lucio Magri.
Al centro di tutta questa febbrile organizzazione rimaneva come sempre Albertino Mar- cora. Egli reggeva con Ripamonti la vita politica della De di Milano, che ormai irradiava la sua influenza in tutta la Lombardia ed oltre, e nello stesso tempo promuoveva con ritmo quindici- naie incontri ai quali confluivano quanti potes¬sero venire da ogni parte d’Italia per dare il loro contributo di consigli e di scritti alle riviste o per partecipare ad un dibattito sulla realtà politica attuale.
Fu quella una vera palestra di formazione politica dalla quale passavano le intelligenze più vive: molti confluirono stabilmente nella base, altri andarono nel tempo ad alimentare le più diverse posizioni del partito. Ma ognuno conservò poi nella vita un po’ della impronta ricevuta.
Dopo la elezione di Gronchi alla presidenza della repubblica, la base si allargò con la partecipazione di un gruppo qualificato di amici di Gronchi. Tra questi, in primo luogo, Nicola Pistelli, che già dirigeva a Firenze il quindici- naie Politica, Andrea Negrari della Lunigiana, Vincenzo Gagliardi di Venezia e poi Vladimiro Dorigo con altri che venivano dalla esperienza della gioventù cattolica di Mario Rossi cosi duramente schiacciata nel clima di sospetto e di chiusura che caratterizzava il mondo cattolico italiano nell’ultima fase del pontificato di papa Pacelli.
Ma l’apporto più significativo ci venne dall’uni-versità cattolica, dalla quale uscì proprio in quegli anni un gruppo di cui facevano parte Ciriaco e poi Enrico De Mita, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi.
De Mita aveva radici ad Avellino, dove si stava formando un gruppo di giovani quadri di grande valore. Forse tanti insieme non era stato possibile mai averne (e non so se ne sono avuti in seguito) tutti in una sola provincia. Ne ricordo solo alcuni: Antonio Mancino, Biagio Agnes, De Vito, Giuseppe Gargani, Auri- gemma. Questi giovani trascinarono nella base il loro leader locale Fiorentino Sullo, sottosegretario in carica al ministero dell’industria, che già aveva militato nella sinistra di Dossetti e in iniziativa democratica,
Riccardo Misasi era radicato in Calabria, e a Cosenza trovava il suo collegamento con Antonio Guarasci.
La base veniva così acquistando una sua dimensione nazionale, mentre i nuovi apporti la qualificavano sul piano culturale. Dalla esperienza meridionale veniva non solo una rilettura di Luigi Sturzo secondo la interpretazione di De Rosa, ma filtrava anche la cultura laica derivante dalle letture di Croce, di Dorso e di Gramsci.
Dalle esperienze del nord veniva non solo la cultura della resistenza cattolica, ma anche l’eco dei contrasti più duri dei cattolici più avanzati con la gerarchia ecclesiastica specialmente intransigente nel Lombardo-Veneto, con la sola eccezione del patriarca di Venezia.
Quasi in gara con la gerarchia ecclesiastica nel combattere qualunque espressione di apertura a sinistra, si poneva la segretaria nazionale della De, dalla quale partiva un’azione repressiva di carattere sistematico contro i nuclei in formazione della base: commissariamenti, provvedimenti disciplinari, emarginazione, e- esclusione da ogni posizione di potere.
Senza l’impegno personale e costante di Albertino, l’opera infaticabile di sostegno morale e politico, la forza derivante dall’azione sua, di Ripamonti e di Granelli per il mantenimento dell’arroccamento in Milano, la base non avrebbe potuto sopravvivere e crescere anche quando si abbatterono i provvedimenti più gravi: la espulsione di Aristide Marchetti, la sospensione dal partito di Chiarante e di Magri, la chiusura conseguente di Prospettive,
Ci avviavamo al VI congresso nazionale della De di Trento nell’autunno del 1956.
Esso rappresentò per Albertino una prova
ancora più dura.
Arrivammo a quel congresso con una rappresentanza di delegati meno forte che nel precedente congresso, a causa della lotta durissima sostenuta nei precongressi, ma più agguerrita e più qualificata.
Ad Albertino, che aveva guidato l’intera bat-taglia congressuale, fu impedito di partecipare al congresso: il clima era ancora quello delle rappresaglie politiche che potevano ricadere su Mattei a causa dei suoi rapporti personali con Marcora. Albertino, ricordo, ne soffrì moltis-simo. Una nostra delegazione passò a trovarlo prima del congresso nella sua vecchia casa di Milano e Albertino ci congedò con gli occhi lucidi di commozione. Tornammo a trovarlo esultanti dopo il congresso, felici per l’inaspet-tato successo.
Il regolamento congressuale era stato studiato apposta per non consentirci di presentare la nostra lista. Esso, infatti, stabiliva che la lista non potesse essere presentata se non conteneva almeno dieci parlamentari. E tutti sapevano che la base, pur avendo circa il 10% dei voti congres-suali, era formata di giovani e non disponeva che di due o tre parlamentari. Dominammo il congresso con gli interventi, specialmente con quelli di De Mita, di Granelli, di Pistelli e di Gagliardi; presentammo una lista insieme con gli aclisti di Labor che si collocarono con noi su una posizione più di sinistra, differenziandosi dai sindacalisti di Pastore e riuscimmo a raccogliere, anche per simpatia in extremis le aderenza meridionale veniva non solo una rilettura di Luigi Sturzo secondo la interpretazione di De Rosa, ma filtrava anche la cultura laica derivante dalle letture di Croce, di Dorso e di Gramsci.
Dalle esperienze del nord veniva non solo la cultura della resistenza cattolica, ma anche l’eco dei contrasti più duri dei cattolici più avanzati con la gerarchia ecclesiastica specialmente intransigente nel Lombardo-Veneto, con la sola eccezione del patriarca di Venezia.
Quasi in gara con la gerarchia ecclesiastica nel combattere qualunque espressione di apertura a sinistra, si poneva la segretaria nazionale della De, dalla quale partiva un’azione repressiva di carattere sistematico contro i nuclei in formazione della base: commissariamenti, provvedimenti disciplinari, emarginazione, e- esclusione da ogni posizione di potere.
Senza l’impegno personale e costante di Albertino, l’opera infaticabile di sostegno morale e politico, la forza derivante dall’azione sua, di Ripamonti e di Granelli per il mantenimento dell’arroccamento in Milano, la base non avrebbe potuto sopravvivere e crescere anche quando si abbatterono i provvedimenti più gravi: la espulsione di Aristide Marchetti, la sospensione dal partito di Chiarante e di Magri, la chiusura conseguente di Prospettive.
Ci avviavamo al VI congresso nazionale della De di Trento nell’autunno del 1956.
Esso rappresentò per Albertino una prova ancora più dura. Arrivammo a quel congresso con una rappresentanza di delegati meno forte1 che nel precedente congresso, a causa della lotta durissima sostenuta nei precongressi, ma più agguerrita e più qualificata.
Ad Albertino, che aveva guidato l’intera battaglia congressuale, fu impedito di partecipare al congresso: il clima era ancora quello delle rappresaglie politiche che potevano ricadere su Mattei a causa dei suoi rapporti personali con Marcora. Albertino, ricordo, ne soffrì moltissimo . Una nostra delegazione passò a trovarlo prima del congresso nella sua vecchia casa di Milano e Albertino ci congedò con gli occhi lucidi di commozione. Tornammo a trovarlo esultanti dopo il congresso, felici per l’inaspettato successo.
Il regolamento congressuale era stato studiato apposta per non consentirci di presentare la nostra lista. Esso, infatti, stabiliva che la lista non potesse essere presentata se non conteneva almeno dieci parlamentari. E tutti sapevano che la base, pur avendo circa il 10% dei voti congressuali , era formata di giovani e non disponeva che di due o tre parlamentari. Dominammo il congresso con gli interventi, specialmente con quelli di De Mita, di Granelli, di Pistelli e di Gagliardi; presentammo una lista insieme con gli aclisti di Labor che si collocarono con noi su una posizione più di sinistra, differenziandosi dai sindacalisti di Pastore e riuscimmo a raccogliere , anche per simpatia in extremis le adesioni occorrenti dei parlamentari; infine, nonostante che il sistema elettorale maggioritario ci sfavorisse e ci desse per esclusi anche dalla minoranza, riuscimmo ad emergere nelle vota-zioni grazie alle preferenze raccolte con il panachage.
Ma le cose nel partito erano ormai mature per un cambiamento. La crisi del centrismo precipi-tava. Dopo il governo Sceiba, anche il governo Segni entrava in crisi nella primavera del 1957 e non si trovò via di uscita diversa dal monocolore Zoli senza maggioranza precostituita. Ormai era chiaro che, senza una apertura a sinistra , non era possibile alcuna stabilità politica. Di questo si incominciava a rendere conto anche Fanfani che ài consiglio nazionale di Valle ombrosa (luglio ’57) preparò la svolta proponendo la inclusione della base per la prima volta nella direzione del partito. Era passato appena un anno dalla espulsione di Marchetti.
La decisione, se entrare o no in direzione, fu presa in una riunione nel giardino della casa di Marcora ad Inveruno. Ricordo che io ero con-trario all’ingresso, perché avrei voluto una pre-ventiva non equivoca dichiarazione politica di Fanfani per il centro sinistra prima di impe-gnarci con lui in una maggioranza. Prevalse, invece, l’idea di Marcora di entrare, anche per sottrarci finalmente dall’isolamento e fu desi-gnato Granelli a rappresentarci in direzione.
Il cammino per il centro sinistra doveva essere però ancora molto lungo e faticoso.
Le elezioni
del 1958 segnarono un successo per la segreteria Fanfani premiando la nuova macchina organizzativa, ma non furono fortunati i candidati della base, solo sei dei quali risulta-rono eletti. Il mondo cattolico e l’apparato nazionale dei partiti ci osteggiavano ancora apertamente nonostante Vallombrosa. A Milano Albertino si prodigò al massimo delle sue possibilità, ma fu eletto solo Ripamonti: la vit-tima più illustre fu Luigi Granelli, che più fu combattuto anche e soprattutto dalla gerarchia ecclesiastica perché rappresentava il simbolo di punta della nostra posizione politica. Anche ad Avellino si ebbe il successo scontato di Sullo, ma De Mita rimase il primo dei non eletti..
E, tuttavia, il successo elettorale e l’assun-zione delle responsabilità di governo su una linea che doveva essere preparatrice del centro sinistra, non giovarono a Fanfani, che fu bersa-gliato dalla destra interna con il gioco dei fran-chi tiratori sino a provocare la doppia crisi di governo e di partito. Eravamo alle Idi di marzo del 1959 e vi fu la rottura di iniziativa democra-tica, la nascita del doroteismo, che conquistò per pochi voti la maggioranza nel consiglio nazio-nale e poté eleggere un suo segretario nella per-sona di Aldo Moro.
D’accordo con Marcora non ebbimo esitazione a schierarci in quella occasione dalla parte di Fanfani, facendo prevalere, su ogni pur legittimo risentimento, la scelta di linea politica che ci vedeva ala marciante e pensante o, come La Pira ebbe a definirci, “coscienza critica della De”.
Ma Aldo Moro, giunto alla segreteria politica come espressione del doroteismo che aveva dato vita ad un secondo governo Segni (un monocolore che contava sull’appoggio esterno determinante liberale e monarchico e quello non determinante missino), in breve volgere di tempo diede una impronta nuova e inaspettata alla democrazia cristiana.
Anche Moro si rese subito conto che la strada dell’apertura a sinistra era inevitabile, se si voleva allargare l’area della democrazia in Italia e preservarla dalle spinte involutive antidemocratiche. Ma a quell’apertura bisognava arrivare con la De unita. Per questo Moro non si lasciò catturare, né condizionare dalla maggioranza dorotea, aprì il discorso con i fanfaniani inserendoli con la vice segreteria Forlani nella gestione del partito subito dopo il drammatico congresso di Firenze - autunno 1959 - che aveva visto al De spaccata in due ma soprattutto tenne aperto il dialogo con la sinistra di base. In Cn fu eletto solo Granelli.
Con un grande intuito politico Marcora pre-dispose gli strumenti di questo dialogo. Volle che a Roma nascesse un’agenzia di stampa, la Radar, diretta da Giovanni Di Capua, che con le sue note quotidiane intervenisse sui fatti politici interpretandoli in funzione della linea politica proposta; che a Milano - diretta da Granelli - la rivista Stato democratico approfondisse i temi culturali soprattutto delle istituzioni; che in una serie di convegni nazionali sulle questioni di politica istituzionale la sinistra de si esprimesse su tesi in qualche modo parallele o anticipatrici delle funzioni ufficiali che il partito veniva assumendo nei convegni di S. Pellegrino.
L’intervento di Marcora fu sempre decisivo nei momenti più delicati di svolta. Così, quando dopo la crisi del monocolore Segni - voluta da Moro allorché i voti missini diventarono determinanti -, si ebbe il governo Tambroni, rinviato da Gronchi al parlamento nonostante si reggesse anch’esso sui voti missini, Marcora fu decisivo per convincere Sullo, ministro in quel governo, a dimettersi immediatamente. Con il successivo governo Fanfani, che ebbe per la prima volta l’astensione dei socialisti, la strada era aperta per la svolta di centrosinistra confermata dall’Vili congresso della De svoltosi a Napoli nel gennaio del 1962.
Ormai la via del centro sinistra era possibile anche a livello locale e Marcora l’anticipò ovunque la base potesse contare: a Milano, in Lombardia, in altre parti d’Italia. Finalmente poteva incominciare a trovare uno sbocco attraverso un ingresso a vele spiegate nell’impegno amministrativo tutto il giovane personale politico democristiano formato politicamente da molti anni.
Ma l’affermazione del centro sinistra nazionale apriva per la base e per Marcora problemi
a livello nuovi dopo le elezioni del 1963. Esse portarono in parlamento una pattuglia più consistente basista comprendente De Mita. Dopo la parentesi Leone, Moro divenne presidente del consiglio del primo governo di centro sinistra.
Ma era condizionato dalla maggioranza interna dei dorotei e dagli orientamenti del presidente della repubblica, l’onorevole Segni, subentrato a Gronchi dopo aver sconfitto la candidatura di Fanfani.
Il primo problema da affrontare fu quello di Sullo, che era il rappresentante della base nel governo. Egli affermava la inutilità di proseguire la esperienza della base dopo la formazione del centro sinistra e sosteneva la opportunità della nostra confluenza nella maggioranza dorotea. Marcora, come la maggioranza di noi, considerò inaccettabile questo discorso e non per spirito di corpo, ma perché ritenevamo di avere ancora una funzione importante da svolgere.
Temevamo infatti - ciò che in realtà poi in parte avvenne - che, se la spregiudicata con-cezione dorotea del potere si fosse collegata con una tendenza analoga emergente nei socialisti, il centro sinistra, ridotto a semplice metodo di spartizione e di gestione del potere, avrebbe avuto vita breve e deludente.
Marcora ebbe chiaro che, per Ì tempi e per i modo con cui il centro sinistra si realizzava, la sinistra democristiana non aveva conseguito pienamente i suoi obiettivi e non si poteva integrare con il sistema di potere dominante nel partito. Riserve critiche rimanevano e riguardavano il metodo del dialogo politico e dell’allargamento dell’area democratica; la maggioranza dorotea infatti, lo intendeva come allargamento ad altri partiti dell’area di potere, anziché come incontro di forze popolari; inoltre l’orientamento doroteo verso la pianificazione sembrava a noi tradirne l’originario spirito vanoniano e tentasse una programmazione basata sull’efficientismo e la tecnocrazia e rivelasse la incapacità di offrire meccanismi istituzionali in cui il nuovo spazio di libertà aperto dal centro sinistra potesse confluire ed organizzarsi per la partecip azione. Per questo non potevamo confonderci con il doroteismo.
Sullo fu, dunque, lasciato andare da solo per la sua strada, ma anche il tentativo di allargare l’opposizione fondendo la nostra sinistra politica con la sinistra sociale di Pastore fallì nel giro di un paio di anni.
Questa unità si rivelò un equivoco anche nella vicenda delle elezione del presidente della repubblica, avvenuta negli ultimi giorni del 1964, dove la divisione tra noi, che sostenevamo Fanfani, e i sindacalisti che sostenevano Pastore, non agevolò la riuscita di una candidatura democristiana, nemmeno quella dorotea di Leone, e portò alla elezione di Saragat ed ai conseguenti strascichi disciplinari contro De Mita e Donat Cattin. E a cominciare dalle elezioni politiche del 1968 la esperienza politica di Marcora subisce una svolta. Fino a quel momento Marcora era il capo effettivo e riconosciuto di una realtà regionale, e pur esercitando di fatto una funzione di guida di una corrente nazionale non aveva voluto assumere responsabilità a livello di dire-zione nazionale e di partito, parlamentare o di governo.
Aveva volontariamente scelto che questo l’assumessero altri.
Ma la candidatura al senato nel 1968 cambia la vecchia regola della corrente e anche non poco la sua vita.
Il ’68 è un anno difficile: non tutti comprendono che, al di là della protesta giovanile, si annuncia un cambiamento profondo nella società. Il centro sinistra non si rivela più in grado di dare una risposta positiva ai fermenti nuovi che emergono.
L’unico che, forse, ha compreso la novità del fenomeno è Moro; ma la De commette l’errore di metterlo da parte proprio nel momento in cui più ne avrebbe bisogno.
Marcora - giunto a Roma questa volta a capo di un folto drappello di parlamentari basisti - tenta in un primo momento una impossibile mediazione tra Moro e Fanfani.
Sono quelli gli anni in cui si matura la crisi, oltre che del centro sinistra, della stessa De attraverso le esperienze di governo di Rumor, di Colombo e di Andreotti e quella di partito di Piccoli e di Forlani e alla fine dello stesso Fanfani.
Si avverte l’esigenza di un cambiamento che non può essere solo generazionale. Marcora pensa che la soluzione indicata a S. Ginesio, quella del cambio generazionale che porta alla segreteria Forlani, possa essere decisiva proprio perché, diversamente da me, non aveva vissuto l’esperienza di iniziativa democratica. Certo, il cambio di generazione era importante, ma non sufficiente per il rinnovamento se non accompagnata da un cambiamento di linea politica. Se il centro sinistra rivelava segni di esaurimento, le soluzioni non potevano trovarsi in direzione di ritorni all’indietro verso formule centriste come il governo Andreotti-Malagodi.
Bisognava, per una sinistra democristiana, andare avanti alla ricerca del nuovo sia sul piano politico che sul piano delle trasformazioni in corso nella società.
Sul piano politico, già nelle intuizioni di Pistelli del 1964 e, poi, con la tesi di De Mita del “patto costituzionale” del 1969 si incomincia a porre, sui primi sintomi di crisi del centro sinistra, la questione comunista.
Marcora è tra i primi a raccoglierla. Per lui è chiaro sin dal primo momento che la questione comunista va posta con lo stesso metodo, ma non può essere risolta nello stesso modo con cui era stata affrontata la questione socialista. In realtà il problema non può essere posto nei ter-mini di allargamento del governo sino ai comunisti, ma in quello più proprio di come creare le
condizioni politiche ed istituzionali perché i comunisti, pienamente e senza discriminazioni, possano rientrare all’interno del gioco democratico e costituzionale.
Questo discorso si è venuto sempre più chiarendo nella intera De e nella stessa opinione pubblica man mano che il centro sinistra ha evidenziato la sua crisi e alla fine il suo superamento, ed ha influenzato Marcora nella scelta di Zaccagnini alla segreteria del partito e nella sua accettazione con Moro, nella fase storica 1976-1978, della politica di solidarietà nazionale.
Ma già nei primissimi anni ’70, aiutando in termini operativi la segreteria Forlani e poi assumendo la responsabilità di vice segretario con Fanfani, Marcora - sia pure istintivamente - avverte Ì cambiamenti profondi in corso nella società a livello economico.
È sua l’iniziativa che il partito assume con il convegno economico di Perugia. In esso viene scoperta e valorizzata, accanto a Saraceno, tutta una nuova generazione di economisti da Andreatta a Prodi, da Lombardini a Mazzocchi a Lizzeri .
Non sono più gli economisti di stampo keynesiano della vecchia sinistra dossettiana o lapiriana. Essi avvertono che qualcosa nel mondo sta cambiando, che anche la sinistra si deve attestare su nuove frontiere economiche perché il mito del welfare state è caduto e l’eccesso di interventismo pubblico va moderato attraverso le sempre maggiori possibilità che vanno offerte alla società di ricuperare spazi di potere occupati nel passato dalla mano pubblica.
Al ’68 e all’autunno caldo sindacale non si può quindi rispondere con il vecchio riformismo, ma con il ricupero delle condizioni di aumento della produttività privata e pubblica. Se si vogliono salvare le prospettive future dei lavoratori il problema anche per una sinistra - non è quello di distribuire di più, ma di produrre di più, con la partecipazione responsabile dei lavoratori, di trovare sempre nuovi sbocchi nei mercati internazionali ed interni.
Si prepara così la terza fase dell’esperienza di Giovanni Marcora, quella dell’uomo di governo.
Ancora un ricordo personale: si stava formando il governo successivo all’esaurimento della funzione che Malora aveva avuto nella vicesegreteria con Fanfani e gli era stata offerta l’entrata nel governo al ministero dell’agricoltura. Albertino ed io eravamo a Roma nel suo piccolo appartamento su piazza Navona. E Marcora esitava, era preso da molti dubbi.
Io invece non avevo dubbi: sapevo che con il suo carattere forte, la sua capacità di scegliere e di valutare gli uomini, il suo scrupolo morale Albertino avrebbe fatto molto bene al governo; glielo dissi. Gli dissi anche bruscamente che ormai aveva superato i cinquanta anni e che non era il caso di aspettare i tempi di una ulteriore maturazione. Marcora, infatti, come è universalmente riconosciuto, è stato forse il miglior ministro dell’agricoltura della nostra repubblica.
È vero, non passa alla storia per aver fatto la riforma agraria, come Antonio Segni, o per aver inventato il fondo di dotazione per gli investimenti agricoli o la legge sulla montagna, come Amintore Fan- fani; ma verrà ricordato per avere segnato una svolta ormai necessaria negli orientamenti della nostra politica agraria: quella di avere abbandonato la tradizione degli interventi esclusivi sulle strutture (l’interventismo di stato) e di avere puntato tutto sul mercato perché poi dalle sue maggiori entrate, anziché dalle munificenze dello stato, l’imprenditore agricolo avrebbe ricavato gli incentivi per gli ulteriori investimenti. Di qui il suo impegno e il suo successo a livello comunitario. Di qui la capacità che ebbe a risollevare in pochi anni i redditi degli agricoltori italiani grandi e piccoli.
Ma Marcora sarà ricordato anche per la legge quadrifoglio che - nonostante alcune censure della corte costituzionale - rimane ancora una pietra angolare nella disciplina di una programmazione agricola e ha offerto una procedura di rapporti tra stato e regioni; e ancora verrà ricordato per aver collegato, come nei paesi più progrediti, la politica dell’agricoltura con quella dell’alimentazione.
Anche come ministro dell’industria Marcora non potrà essere dimenticato. Per non parlare di altro, le
sue intuizioni sul piano energetico nazionale e sulla politica degli approvvigionamenti energetici segnano tappe che non sono ancora superate.
È stato detto da molti che Giovanni Marcora era un vero capo naturale. A qualunque attività si accingesse, qualunque iniziativa intendesse intraprendere: nella guerra partigiana, nella iniziativa politica, nell’azione di governo o nello slancio imprenditoriale, gli era infatti riconosciuta la qualità indiscussa del capo. E questo riconoscimento derivava dalla carica di entusiasmo e di vigore che poneva in ogni cosa e che sapeva infondere agli altri, per la sicurezza che dava a chiunque entrasse in rapporto con lui, ma soprattutto per la grande umanità che - sotto una scorza a volte un po’ ruvida - sapeva sempre esprimere.
Giovanni Marcora non fu quello che comunemente si intende per intellettuale; fu essenzialmente un politico di azione, il quale tuttavia sapeva molto bene che l’azione valida non può non essere preceduta dal pensiero, non può non seguire una strategia, non può non essere il frutto di un disegno preciso in vista di un risultato e che, in ogni caso, l’iniziativa deve fare i conti con la realtà e con i suoi condizionamenti.
In questo senso, se per cultura s’intende, come io la intendo, non la erudizione libresca o lo sfoggio delle nozioni acquisite, ma la presa di coscienza della realtà e degli strumenti e dei mezzi idonei a farla evolvere e a modificarla secondo precisi fini, Giovanni Marcora fu anche e soprattutto uomo di cultura. E non solo perché sentiva il fascino degli uomini colti, dei quali però sapeva subito giudicare se erano portatori di sola erudizione o di novità di idee, ma perché di continuo elaborava ed offriva con rara sensibilità strumenti operativi -giornali, riviste, convegni - attraverso i quali il pensiero potesse organizzarsi e trasformarsi in azione. Per merito suo la base poté essere, per quasi trent’anni, più che una corrente di partito, una esperienza, mai prima esistita e forse irripetibile, come punto di incontro, di dibattito, di scambio culturale e di pensiero, di elaborazione di idee. Tutti gli amici che sono passati attraverso la base sono stati aiutati ad esprimersi; ma a nessuno Marcora ha mai chiesto riconoscenza o conformismo. Molti di loro sono passati in altre posizioni nella De o in partiti e formazioni diverse ottenendo sempre da Albertino il massimo rispetto per le loro personali decisioni con alcuni di essi continuando un sincero rapporto di amicizia; tutti hanno sempre riconosciuto - qualunque sia stata la loro successiva evoluzione - il significato ed il valore di queste esperienze.
Ora tutto ciò sarebbe stato possibile senza Marcora? Penso di no: penso che tante, troppe esperienze vitali si sarebbero dissolte o disperse senza il lavoro costante, oscuro ma tenace di Albertino.
La sua azione fu decisiva e determinante in alcuni passaggi essenziali della vita nazionale e della vita del nostro partito, come la costituzione del centro sinistra o l’avvio della' politica di solidarietà nazionale, come la elezione di Zaccagnini e di De Mita alla segreteria politica: e furono, queste ultime, due scelte decisive per salvare la De da una crisi altrimenti inevitabile dopo i risultati del referendum sul divorzio e le di' elezioni amministrative del 1975 e dopo i risultati del referendum sull’aborto e lo scandalo della P2 nel 1982.
C’è soprattutto, ancora oggi, l’attualità di un insegnamento morale e la nostalgia di quel calore umano, di quella generosità che non chiedeva contropartite e attorno alla quale si cementava la solidarietà politica e l’affetto di quanti gli erano amici.
Questi valori, così rari nella vita politica, abbiamo perduto.
Per questo, Albertino rimane indimenticabile nel cuore degli amici, di tutti gli amici democratici cristiani della sua Milano e di ogni parte d’Italia, ma al di là d’essi nel cuore di tutti coloro che in Italia o all’estero hanno avuto la ventura di poterlo conoscere e di poterlo apprezzare nella genuina schiettezza del suo valore umano, dei suoi esuberanti entusiasmi come nelle sue timidezze, nella sua forza di decisione come nei risvolti più delicati della sua sensibilità. Anche per questo, soprattutto per questo - al di là di ogni passeggera differenza di opinione - lo abbiamo amato e lo ricordiamo con immutato affetto.