ALCIDE DE GASPERI

Tratto da "L’idea popolare", Editrice Monti, Saronno 2003 - Giovanni Bianchi – Lorenzo Gaiani

ALCIDE DE GASPERI

ALCIDE DE GASPERI

ricostruzione e progresso

RICOSTRUZIONE E PROGRESSO

Voler sintetizzare in poche righe il senso di un’esperienza umana così ricca e composita come quella di Alcide De Gasperi è a dir poco ridicolo e presuntuoso. D’altro canto, non è facile rompere la cappa di un’immagine monolitica del personaggio che gli ambienti della dirigenza democristiana costruirono fin dalla sua morte, nell’agosto del 1954, quasi a voler fissare definitivamente l’immagine del capo e del maestro che li aveva condotti alle più strepitose vittorie e che aveva avviato la ricostruzione dell’Italia dopo le distruzioni morali e materiali della guerra.

FEDELE ALLE ORIGINI

Così, di volta in volta De Gasperi è stato presentato come l’Antifascista, l’Anticomunista, il Ricostruttore, senza che alla monoliticità della costruzione che veniva apparecchiata si inserissero le zone d’ombra, le tensioni dialettiche, la percezione della complessità di un personaggio così eccezionale. Si è dunque (volutamente?) dimenticato che l’ apprendistato sociale e politico di De Gasperi nacque per così dire in partibus infidelium, nel senso che egli, all’epoca dei suoi studi a Roma all’inizio del secolo, frequentò con passione l’ambiente murriano, assorbendone le idee di rinnovamento spirituale e sociale. Nello stesso tempo, l’esperienza politica in un Trentino ancora legato all’Austria-Ungheria lo mise in contatto con una grande scuola amministrativa che gli insegnò a declinare in termini realistici la sua scelta d’impegno maturata sulla spinta di una forte vita di fede. A queste origini De Gasperi si mantenne sempre fedele, come dimostrano i giudizi severi che, sia pure in via riservata, espresse sull’atteggiamento dell’ufficialità cattolica nei confronti del fascismo imperante, come anche il suo rifiuto esplicito della cosiddetta “operazione Sturzo” per le elezioni comunali romane del 1951.

UN VERO ANTIFASCISTA

Infatti, la proposta di un accordo “tecnico” fra la DC e le destre, sotto l’ egida forse inconsapevole del vecchio leader popolare, era infatti prodromica a un disegno più ampio, che coinvolgeva settori vaticani e settori del mondo economico, miranti a una trasformazione degli indirizzi politici del nostro Paese in termini tali da prefigurare una soluzione non lontana dal modello franchista di Spagna (come dimostrano le simpatie che il Caudillo mantenne in settori non marginali del cattolicesimo italiano almeno fino all’epoca conciliare), con relativa messa ai margini delle forze di sinistra. De Gasperi si rifiutò a una simile operazione, che contrastava con la linea da lui perseguita in tutta la sua carriera politica, mirata a un progressivo inserimento di tutte le forze democratiche nello Stato, a partire da quelle che avevano la rappresentanza del mondo del lavoro. Soprattutto si rifiutava a ciò la sua coscienza di antifascista, che aveva dovuto soggiornare nelle patrie galere durante il periodo mussoliniano e che era stato salvato dalla fame, insieme alla sua famiglia, da un intervento vaticano, al prezzo di una costante emarginazione dalla vita del mondo cattolico.

SOLIDE BASI PER LA DEMOCRAZIA

Soprattutto, e lo hanno dimostrato gli studi penetranti di uno storico di vaglia come Pietro Scoppola, De Gasperi non considerò mai come definitivo l’ assetto politico succeduto alle elezioni del 1948, ma riteneva anzi che sarebbe stato un errore per la DC trincerarsi nella difesa degli interessi della borghesia contro le forze del lavoro. A tale proposito va riletta la missiva che egli inviò al Presidente delle ACLI in cui disegnava con grande audacia il compito dell’associazione nel suo ruolo di formazione e animazione sociale. Importanti anche le confidenze raccolte dall’amico Emilio Bonomelli poco dopo le elezioni del 18 aprile 1948, secondo cui De Gasperi, pur ovviamente apprezzando il risultato che conferiva alla DC e ai suoi alleati una larga maggioranza, riteneva quell’ assetto transeunte, auspicando che in una fase successiva la DC si scindesse in un’ala moderata e in una più progressiva cui dava il nome di “Laburismo cristiano”. Ridurre quindi De Gasperi alla dimensione del leader anticomunista è a dir poco arbitrario, anche perché nella sua azione di governo non mancarono scelte anche decise di diretto interventismo in campo economico e sociale, come il progetto di case popolari ideato e gestito da Amintore Fanfani, o l’incarico affidato ad Enrico Mattei di salvaguardare le fonti di materie prime nazionali, che portò alla costituzione dell’ ENI. Soprattutto De Gasperi fu segnato da un divorante senso del dovere accompagnato da un altrettanto acuto senso del possibile, che si univano a una religiosità tanto più profonda quanto schiva, poco esposta. L’ insieme di questa caratteristiche spinsero spesso lo statista trentino a compiere ciò che riteneva giusto piuttosto che ciò che desiderava, contribuendo tuttavia a creare su solide basi la neonata democrazia italiana.

DISCORSO DI ALCIDE DE GASPERI ALLA CONFERENZA DI PACE DI PARIGI (1946)

"Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali? Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire. Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di responsabilità impone in quest’ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente duro; ma se esso tuttavia fosse almeno uno strumento ricostruttivo di cooperazione internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso: l’Italia che entrasse, sia pure vestita del saio del penitente, nell’ONU, sotto il patrocinio dei Quattro, tutti d’accordo nel proposito di bandire nelle relazioni internazionali l’uso della forza (come proclama l’articolo 2 dello Statuto di San Francisco) in base al “principio della sovrana uguaglianza di tutti i Membri”, come è detto allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente “l’integrità territoriale e l’indipendenza politica”, tutto ciò potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e conforto. L’Italia avrebbe subìto delle sanzioni per il suo passato fascista, ma, messa una pietra tombale sul passato, tutti si ritroverebbero eguali nello spirito della nuova collaborazione internazionale.
Si può credere che sia così? Evidentemente ciò è nelle vostre intenzioni, ma il testo del trattato parla un altro linguaggio.
In un congresso di pace è estremamente antipatico parlar d’armi e di strumenti di guerra.
Vi devo accennare, tuttavia, perché nelle precauzioni prese dal trattato contro un presumibile riaffacciarsi di un pericolo italiano si è andati tanto oltre da rendere precaria la nostra capacità difensiva connessa con la nostra indipendenza.
Mai, mai nella nostra storia moderna le porte di casa furono così spalancate, mai le nostre possibilità di difesa così limitate. Ciò vale per la frontiera orientale come per certe rettifiche dell’occidentale ispirate non certo ai criteri della sicurezza collettiva. Né questa volta ci si fa balenare la speranza di Versailles, cioè il proposito di un disarmo generale, del quale il disarmo dei vinti sarebbe solo un anticipo.
Ma in verità più che il testo del trattato, ci preoccupa lo spirito: esso si rivela subito nel preambolo.
Il primo considerando riguarda la guerra di aggressione e voi lo ritroverete tale quale in tutti i trattati coi così detti ex satelliti; ma nel secondo considerando che riguarda la cobelligeranza voi troverete nel nostro un apprezzamento sfavorevole che cercherete invano nei progetti per gli Stati ex nemici. Esso suona: “considerando che sotto la pressione degli avvenimenti militari, il regime fascista fu rovesciato … “. Ora non v’ha dubbio che il rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazione dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza l’intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l’abile azione clandestina degli uomini dell’opposizione parlamentare antifascista (ed è qui presente uno dei suoi più fattivi rappresentanti) che spinsero al colpo di stato.
Rammentate che il comunicato di Potsdam del 2 agosto 1945 proclama: “L’Italia fu la prima delle Potenze dell’Asse a rompere con la Germania, alla cui sconfitta essa diede un sostanziale contributo ed ora si è aggiunta agli Alleati nella guerra contro il Giappone”. “L’Italia ha liberato se stessa dal regime fascista e sta facendo buoni progressi verso il ristabilimento di un Governo e istituzioni democratiche”. Tale era il riconoscimento di Potsdam. Che cosa è avvenuto perché nel preambolo del trattato si faccia ora sparire dalla scena storica il popolo italiano che fu protagonista? Forse che un governo designato liberamente dal popolo, attraverso l’Assemblea Costituente della Repubblica, merita meno considerazione sul terreno democratico? La stessa domanda può venir fatta circa la formulazione così stentata ed agra della cobelligeranza: “delle Forze armate italiane hanno preso parte attiva alla guerra contro la Germania”. Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del “Corpo Italiano di Liberazione”, trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e “last but non least” dei partigiani, autori soprattutto dell’insurrezione del nord. Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima e dopo la dichiarazione di guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza contare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento ed i 50 mila patrioti caduti nella lotta partigiana. Diciotto mesi durò questa seconda guerra, durante i quali i tedeschi indietreggiarono lentamente verso nord spogliando, devastando, distruggendo quello che gli aerei non avevano abbattuto. Il rapido crollo del fascismo dimostrò esser vero quello che disse Churchill: “un uomo, un uomo solo ha voluto questa guerra” e quanto fosse profetica la parola di Stimson, allora Ministro della guerra americano: “La resa significa un atto di sfida ai tedeschi che avrebbe cagionato al popolo italiano inevitabili sofferenze”.