Centro Studi Marcora

Dichiarazione interesse storico compendio Archivio e biblioteca del Centro Studi Marcora.

Carissimi

ho il piacere di allegarvi il decreto della Sovraintendenza Archivistica e Bibliografica della Lombardia di dichiarazione dell’interesse storico particolarmente importante del compendio Archivio e biblioteca del Centro Studi Marcora.

E’ un traguardo di rilievo che riconosce la validità della documentazione esistente e incentiva gli amici a conferire il materiale di cui avessero disponibilità .

Saluti affettuosi.

Gianni Mainini

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Riflessioni sul PD di Enrico Farinone

Partito democratico. Una riflessione sul passato per poter guardare al futuro

L’elezione di Enrico Letta alla segreteria nazionale del Partito Democratico è una buona notizia. Per la sua caratura intellettuale e professionale, per la sua esperienza politica e, ancor più, per il suo tratto personale che molti di noi hanno nel tempo avuto modo di apprezzare.
Il modo migliore, più serio, per cercare di dargli una mano nel tentativo – complicato – di salvare e poi rilanciare il Pd non consiste né in una superficiale sottovalutazione dei problemi insiti nella terribile dichiarazione d’impotenza sottoscritta dall’ex segretario Zingaretti né in quel fastidioso coro unanime di peana rivolto al neosegretario, tanto più ipocrita quanto più espresso da personaggi poco credibili, alcuni impegnati sino al giorno prima in una estenuante guerriglia interna per bande e altri usi a blandire il leader di turno salvo poi passare con disinvoltura al successivo.
Il modo migliore, come sempre dovrebbe essere, ma come assolutamente è indispensabile nei momenti di svolta, decisivi per il proprio futuro, è quello di evidenziare i malfunzionamenti, gli errori, i problemi al fine di superarli per poter poi impostare la nuova fase. Certo, esporre in questo modo le questioni è un modo per affermare le proprie idee, la propria visione e così facendo si corre il rischio di venire sconfitti politicamente da chi ha altre idee, altre visioni: ma è esattamente questo il succo del confronto democratico, anche di quello interno ad un partito.
Il dibattito sull’identità – quello che purtroppo il Pd ha subito accantonato immaginando se ne potesse fare a meno temendo che un suo eventuale sviluppo ne avrebbe fatto saltare l’intero impianto, col risultato di trovarselo ancora lì, irrisolto a oltre 13 anni dalla propria fondazione – consente di comprendere se, avendo una visione di fondo comune, le differenze interne sono sulle “politiche” e quindi componibili attraverso positive mediazioni oppure di comprendere che la visione culturale e politica è troppo diversa fra le varie “anime” del partito e quindi di prenderne atto conseguentemente. Motivate così, anche le scissioni e le eventuali successive collaborazioni fra organizzazioni diverse aggregate in un comune “campo” politico hanno un significato, un senso politico. Esattamente il contrario, dunque, delle due scissioni che il Pd ha subìto in questi suoi pochi anni d’esistenza.
Per inciso, questa valutazione consente altresì di precisare qualcosa al riguardo dell’accusato numero uno dei problemi del Pd: il “correntismo”. Come se, rimosse le correnti, ogni difficoltà verrà meno. Non è così. In un partito largo e plurale come dev’essere il Partito democratico (altrimenti ne verrebbe meno la sua stessa ragion d’essere) una discreta differenziazione interna è fisiologica e pure necessaria. Quindi le “correnti”, io continuerei a chiamarle così, sono inevitabili. E anche utili, se organizzate in modo da essere momento di elaborazione politico-programmatica e di selezione qualitativa di dirigenza politica o di competenze tecniche che vengono poi convogliate nell’insieme del partito. Dove si opereranno le necessarie sintesi, le scelte ultime. In genere al riguardo si cita la Democrazia Cristiana. Ebbene, è esattamente questo che avveniva, producendo personale politico di elevato livello. Sino a quando il meccanismo si è inceppato e il tutto è degenerato. Il correntismo privo di idee e unicamente teso alla gestione del potere esploso negli anni ottanta ha condotto quel partito – unitamente ad altre questioni – alla sua fine. Ora, il punto è che nel Pd la fase creativa e propositiva delle correnti non c’è mai stata, e invece avrebbe dovuto esserci e sarebbe stata utilissima per affinare le coordinate del partito, per definire meglio quanto non si era potuto/voluto fare all’atto della sua nascita, per far fruttare al meglio il pluralismo delle idee, dei contributi, delle intelligenze. Tutto ciò naturalmente è possibile solo se quella “visione comune” di cui s’è detto esiste davvero. Ma questo lavoro aiuta a capire se essa c’è. E se c’è il pluralismo l’arricchisce e non la indebolisce affatto.
Ora, nel Pd c’è stato subito il correntismo, in luogo delle correnti di idee. Questo è il punto. Correntismo per dividersi i posti nelle liste bloccate per il Parlamento, ad esempio. E quando si è pensato di abolirlo, peraltro non riuscendovi, si è immaginata una soluzione leaderistica, verticistica totalmente altra rispetto all’impostazione plurale e territoriale che un partito come il Pd dovrebbe avere.
Le osservazioni che seguiranno vogliono pertanto offrire un contributo di chiarezza, verrebbe da dire “di verità” se non si rischiasse così affermando di voler evocare il neosegretario, in relazione ad alcuni aspetti di fondo che ineriscono, in particolare anche se non solo, il ruolo e lo spazio del cattolicesimo democratico e popolare nel Pd. Un tema che è stato ormai accantonato da molti fra gli stessi interessati, e che da altri è ritenuto fastidioso, superato, inutile ma che al contrario è – per lo meno a mio avviso – decisivo nella logica plurale che dovrebbe sorreggere il partito.
Anche partendo da qui, da questo tema forse per molti “scomodo” si può provare a svolgere qualche riflessione che aiuti a porci qualche domanda, a valutare con oggettività i problemi sorti e le contraddizioni emerse. Solo, io credo, un’analisi accurata e onesta intellettualmente di cosa è stato il Pd in questi anni può aiutarci a comprendere come aiutarlo, se possibile, a riprendersi dallo stato di crisi acuta nelle quale versa e a rilanciarsi. Il silenzio, il non voler vedere le cose, il rimanere nel solo ambito della politica amministrativa (fondamentale, peraltro, perché lì almeno si aiuta il prossimo davvero) senza però occuparsi anche della politica più complessiva (magari perché la si considera un orpello inutile, politologia) non aiutano nella ricerca di una ripresa e anzi sono la causa della deriva sbagliata presa ormai da troppo tempo.
Una riflessione dunque essenziale, e che quindi non va sviluppata con timidezza. Forse è tardi, ma la segreteria di Enrico Letta può far sperare che vi sia ancora un margine temporale e non solo. Quindi un po’ di ottimismo per il domani, però senza sconti su quello che è avvenuto sin qui. Del resto, è solo conoscendo il passato, e riflettendo su di esso, che si può interpretare il presente. Per immaginare il futuro. L’ignoranza di ciò che è avvenuto prima non è ammessa, per chi vuole costruire quello che avverrà dopo.
Bisogna inoltre aggiungere, in conclusione di questa premessa che in sé è già parte del ragionamento che voglio qui sviluppare, che vi sono momenti nei quali, anche in tempi ormai dominati dalla ossessione per l’immediatezza del pensiero governata dai social media, una riflessione “vecchio stile” non solo può rivelarsi utile ma addirittura indispensabile. Il periodo sospeso e alquanto angoscioso che stiamo tutti vivendo dovrebbe peraltro aiutare ciascuno di noi nell’esercizio auspicato. Per un attimo abbandoniamo dunque i social e il loro stile comunicativo – affermazione in tre righe più foto, risposta immediata e spesso non pensata – e immergiamoci con la necessaria calma dentro un problema, per riflettere intorno ad esso al solo fine di approfondire o sviluppare i nostri pensieri. Sapendo che, poi, una eventuale azione potrà originare da essi o prevalentemente da essi.
Il tema sul quale voglio invitare alla riflessione riguarda il futuro prossimo del Partito democratico e il ruolo che i cattolici democratici che ad esso hanno a suo tempo aderito possono (o al contrario non sono più in grado di) assumere. Questione che ormai interessa pochissimi ma che invece avrà un suo significativo rilievo nel rimodellamento della politica italiana che l’esito della pandemia e l’azione del governo Draghi io credo determineranno. Un po’ come accadde negli anni novanta dopo lo scandalo Tangentopoli.

L’analisi – in ogni caso qui ridotta all’essenziale, non esaustiva e meritevole di ulteriore sviluppo – vuole semplicemente suggerire alcuni spunti per una discussione ed una riflessione che possano svilupparsi durante l’anno in corso, e magari generare una qualche iniziativa. Il tentativo, inoltre, è di analizzare oggettivamente la situazione, cercando di non farsi coinvolgere da qualsivoglia sentimento di tifoseria. L’obiettivo non è ricevere qualche “like”, bensì stimolare qualche riflessione. E’ bene ribadirlo. Una riflessione rivolta – desidero sottolinearlo – in modo particolare, anche se non solo, ad alcuni: cattolici democratici e popolari che hanno aderito al Pd e in esso sono rimasti, che hanno aderito e poi se ne sono andati, che non hanno mai aderito in quanto non convinti ma non per questo non interessati. Sapendo – pure questo è meglio chiarirlo da subito – che un nuovo partito “dei cattolici” o “di ispirazione cristiana” non è oggi proponibile (e neppure auspicabile), e soprattutto non è realizzabile in una società fortissimamente laicizzata e in un contesto anche ecclesiale ormai profondamente mutato rispetto al passato, oltre che discretamente in crisi. Diverso invece è lo scenario politico, prossimo come detto ad un probabile rilevante cambiamento: ma questo potrà essere l’oggetto di un successivo momento di analisi se gli avvenimenti dei prossimi mesi ne determineranno la necessità. Rimaniamo dunque al tema qui proposto e prepariamoci ad affrontarlo per sommi gradi.
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Frutto della lunga incubazione avvenuta durante gli anni dell’Ulivo, il Pd nasce intorno a due principali assi portanti di natura politica e su un cardine di natura, per così dire, ideale.
Cominciamo da quest’ultimo, ovvero l’integrazione fra cultura e storia post-comunista e socialista e cultura e storia cattolico democratica e sociale in un Paese che lungo tutto il periodo della Guerra Fredda era stato ideologicamente e politicamente profondamente diviso a livello non solo di ceti intellettuali ma anche e soprattutto di opinione pubblica. Qui purtroppo le cose non sono andate bene. La questione merita molto spazio e molto approfondimento. Personalmente mi propongo di affrontarla meglio, in un prossimo futuro, a cominciare dal perché venne velocemente accantonato quel “Manifesto dei Valori” cui avevano lavorato Alfredo Reichlin e il prof. Mauro Ceruti: un documento certamente non perfetto che resta però il punto più alto di elaborazione concettuale sul fronte dell’integrazione culturale. Qui però mi devo limitare a rilevare che, a oltre dieci anni dalla sua fondazione, nel Pd la componente cattolico-democratica è marginale.
Di più. Non appena si fa cenno al punto immediatamente si è accusati di porre un tema ormai superato, che non c’è più. Ed è vero! Quello che però non si dice è che le regole d’ingaggio del nuovo partito (“il partito del XXI° secolo”) prevedevano proprio quella integrazione culturale che non c’è stata (e che forse era impossibile, un’illusione di stampo illuminista). E’ vero perché i “nativi” del Pd, diciamo press’a poco dai trentacinquenni in giù, non sono interessati all’argomento, hanno un’idea del Pd prevalentemente come partito dei “diritti”, non hanno – in larga misura – un taglio culturale “cattolico democratico/popolare”, si sentono “di sinistra” ancorché vagamente, senza voler andare sino in fondo nel contestualizzare questa affermazione. Ed è vero altresì perché la gran parte degli ex di origine Popolare hanno progressivamente perduto la volontà e finanche l’interesse nel cercare di far garantire pari dignità alla loro cultura politica all’interno del partito. A volte, per motivi di basso profilo. Spesso, per ragioni di stanchezza legate al procedere inesorabile del tempo e quindi dell’età anagrafica e anche ai troppi repentini mutamenti intervenuti in un arco temporale assai ristretto: dal 1994 al 2007, se ci pensiamo bene, dunque in soli 13 anni abbiamo assistito e ci siamo trovati attivamente coinvolti in una sequenza davvero ragguardevole, iniziata con la fine della DC, proseguita con la scissione dei Popolari, con la costituzione della Margherita e infine con quella del Pd. Molti che erano insieme, ancorché divisi in correnti, si sono trovati su fronti contrapposti nel bipolarismo della c.d. Seconda Repubblica.
Mentre dall’altra parte, espunta una piccola frangia dispersasi nelle mille sigle della Sinistra oggi genericamente definita “radicale”, il grosso del “corpaccione” militante e dell’intellighentzia dirigente (e funzionariale) è rimasto insieme, transitando dal PCI al PdS, ai DS e finalmente al Pd. Che è stato, nel loro intimo, il nuovo volto, il nuovo nome del loro vecchio partito. Cosa che non è stata invece, correttamente, per alcun Popolare. Potrei fare numerosi esempi. Mi limito qui a invitare ciascuno di noi a far mente locale e a pensare a quanti fra i nuovi “amici/compagni” di partito ha nel tempo sentito parlare del Pd davvero come un “nuovo” partito, con radici profonde, certo, e da non dimenticare ma, in ogni caso, “nuovo” e non prosecuzione delle precedenti formazioni politiche. Pochi, se ci pensiamo bene, senza voler ingannare noi stessi.
C’è a questo proposito una cartina di tornasole che io ricordo spesso anche perché fu un punto di mio personale dissenso, nel partito, insieme a non troppi altri: l’adesione del Pd al Partito Socialista Europeo (PSE). Qualcuno dirà: ma la diede Renzi! Certo, ma Renzi – avendo in mente un suo partito personale non era interessato a questioni di sostanza politica che egli riteneva non rilevanti – utilizzò quella decisione in termini strumentali (e un po’ anche illuso di una possibile novelle vague europea della quale lui era uno dei leader: ricordate la foto alla Festa dell’Unità in camicia bianca con gli altri giovani capi dei partiti socialisti?). Mentre quell’approdo era dato per scontato da dirigenti e militanti ex DS, e la mediazione cui era arrivato Franceschini durante la sua breve segreteria (la costituzione del Gruppo Socialisti & Democratici al Parlamento Europeo) era ritenuta un semplice passo nella direzione voluta, appunto l’entrata a pieno titolo nel PSE. Trincerandosi dietro alla necessità di far parte di un Gruppo al PE senza avere la possibilità di costituirne uno Democratico autonomo (a causa del Regolamento in vigore a Strasburgo, che richiede un numero minimo di deputati di un numero minimo di Paesi) si è rinunciato a qualsiasi ragionamento, a qualsiasi discussione, a qualsiasi valutazione altra. Così facendo, però, si è – nel fondo – scelta una parte e una solo delle due principali, (senza contare le altre minori ma non per questo meno importanti) che avevano definito il patto fondativo che aveva dato vita al partito. Non fu dunque una scelta di secondaria importanza, o un mero tatticismo utile a favorire il conseguimento di altri risultati (come probabilmente pensava Renzi).
Un ulteriore errore, sul piano in questo caso soprattutto simbolico, Renzi-segretario lo fece quando ridenominò “dell’Unità” le “Feste Democratiche”. Ne fece una questione di brand, uno noto e consolidato e l’altro no. Ma la politica non si può ridurre a campagna pubblicitaria, a prodotto da vendere, a immagine. Il cambio di denominazione della Festa – ai tempi ancora abbastanza diffusa sui territori – testimoniava invece visivamente l’avvento di un “nuovo” partito, che prendeva in eredità una tradizione importante e rispettata e la riformulava nella denominazione così come era accaduto al partito medesimo. Fra l’altro, quasi ovunque in Italia (a Roma, però, no) il cambio di nome era stato adottato, a volte con qualche difficoltà a volte meno. Il ritorno della “Festa dell’Unità” rimarcò la preminenza anche “culturale” oltre che simbolica della componente ex comunista nel nuovo partito. Che però, così, era assai meno “nuovo”.
Renzi pensava di incarnare lui medesimo la novità, corroborata da quella famosa “rottamazione” che era stata la sua parola-magica vincente all’insegna dell’accarezzamento di una vena antipolitica che stava rafforzandosi nel Paese come esito dell’accusa alla “casta” e delle difficoltà economiche e sociali generate dalla crisi finanziaria globale del 2007/2008. Ma un partito non può mai risolversi in una persona sola, per quanto valida ed efficace mediaticamente. A meno che si tratti di un “partito personale”, in questi casi però sempre destinato a non sopravvivere al tramonto politico del suo ideatore e frontman. Cosa che il Pd, non foss’altro per la solidità delle sue culture politiche fondative, non avrebbe mai potuto divenire.
E infatti così non fu, neppure quando (dopo la brillante vittoria alle elezioni europee del 2014) si iniziò a parlare del PdR, il “Partito di Renzi” come del possibile “partito della nazione”. La reductio ad unum della pluralità insita nel Pd non avrebbe mai potuto avverarsi se non nella gestione di quote-parte del potere, nella gestione delle direzioni-senza-dibattito reale nel partito, nella composizione di buona parte delle liste elettorali. Il rafforzamento del correntismo esasperato e unicamente teso a combattere per i posti piuttosto che per le idee fu anche una reazione all’identificazione del partito con una persona sola. Ma, attenzione: la sua radicalizzazione intervenne su una struttura correntizia già esistente che solo in parte e solo per un certo periodo di tempo aveva svolto la sua funzione più utile, quella di elaborazione politica, presto abbandonata per una più prosaica attività di lobbismo interno.
Il risultato di tutto ciò è che la confusione valoriale nel Pd è cresciuta a dismisura. E la componente culturale cattolico democratica è in esso oggi marginale, non solo minoritaria. Subito qualcuno interverrebbe alzando il sopracciglio per contestare questa affermazione, prontamente elencando i nomi di vertice, da Letta in giù, di ex Popolari che hanno ruoli importanti nel Pd e nelle istituzioni, a cominciare da quella più importante. Il tema è serio e richiede qualche puntualizzazione e nessuna semplificazione. Perché il punto non è tanto avere delle posizioni pro-tempore occupate da persone che provengono dal tuo stesso filone culturale. Il punto decisivo è quanto si incide sull’humus valoriale, e poi politico, di un partito. Ed è qui che la debolezza, spesso l’assenza, la carenza dei cattolici democratici si avverte nel Pd.
Un esempio: con ironia malcelata si è detto che il Pd è il “partito della ZTL”. Forte nei centri città, debole nelle periferie. Non è così in toto, naturalmente. Però un po’ sì. Un po’ tanto. Molti, troppi voti popolari lo hanno abbandonato. L’allontanamento del ceto medio e medio-basso è il frutto, in buona misura, di quella rincorsa a seguire idee e temi fissi di una certa sinistra snob attenta alle questioni post-materialiste non avendo certo bisogno di confrontarsi con la spesso dura realtà del vissuto quotidiano dei ceti meno abbienti i quali, con la crisi economica, si sono estesi ad ampie fasce del ceto medio. Il Pd si è concentrato sui diritti civili, ha lasciato in secondo piano i diritti sociali. Importanti i primi, ma fondamentali i secondi per la gran parte della popolazione. E in particolar modo per la fascia più periferica, più umile della società italiana. Qui sono mancati i cattolici democratici del Pd. Perché per l’attenzione al sociale che contraddistingue da sempre il cattolicesimo italiano essi avrebbero dovuto richiamare con energia (con tutta l’energia disponibile) la componente proveniente dalla sinistra a ricordarsi delle sue origini e a non farsi irretire dal salottismo di successo, dal larvato imborghesimento che conduce a voler “piacere alla gente che piace”. Ma c’è di più.
Ezio Mauro, già direttore de la Repubblica, possiede una qualità letteraria notevole che si articola attraverso una prosa sofisticata e affascinante senza nulla perdere quanto a chiarezza giornalistica e sostanza concettuale. Egli può ben essere preso a riferimento – in virtù appunto del suo elevato livello compositivo – di quella ormai infinita e pressoché univoca schiera di opinionisti, semplici commentatori o più fini intellettuali, che considerano il Pd (e probabilmente hanno sempre considerato) una semplice emanazione della secolare storia della Sinistra italiana. Quella avviata a Livorno giusto cento anni orsono. Un percorso durato oltre una dozzina di lustri sotto la gloriosa insegna del PCI e poi proseguito con due sigle minori, PdS e DS, sino ad approdare a quella attuale, appunto il Pd.


In uno dei suoi ultimi editoriali (la Repubblica, 8 marzo, “Il Pd e il suo labirinto”), alle prese con l’ennesima crisi di vertice di un partito sorto solo poco più di tredici anni fa, l’illustre giornalista per un breve momento ha un sussulto e si domanda se il Pd sia “l’esito finale di una lunga storia” o piuttosto “l’inizio di una nuova avventura”. Ma dopo aver convenuto che quel partito sorge con l’idea d’essere “punto di riferimento di storie diverse, dai cattolici democratici ai laici repubblicani” subito si premura di precisare che costoro “scelgono di accompagnare il cammino della Sinistra, ibridandola e arricchendola”. Una funzione ancillare, dunque. Di supporto, magari di qualità, ma pur sempre di mero sostegno ad una forza principale. Fra l’altro, e la cosa fa quasi sorridere se non fosse tremendamente seria, ponendo “vocazione europea” e “collocazione occidentale” quali coordinate essenziali del partito: ovvero la più nitida testimonianza di quanto storicamente avvenuto, e cioè il cambiamento strutturale di posizione politica e geopolitica effettuato proprio dalla Sinistra già comunista in seguito alla sconfitta del modello sovietico e in virtù delle buone ragioni di chi in Italia a quel modello si era opposto, optando con decisione per quello incarnato dalle democrazie occidentali. Ciò nondimeno Mauro non immagina “una neutralizzazione del carattere di sinistra del Pd a favore dell’indistinto democratico, bensì una declinazione libera e moderna di quell’identità”.
Questa riduzione di fatto del Pd da partito del Centrosinistra unito a partito della Sinistra tout court, erede di una tradizione che, almeno sotto il profilo della politica estera, è stata opposta a quella risultata storicamente vincente è un’operazione intellettuale che stravolge l’idea fondativa del Pd e che dunque è inaccettabile. Ed invece è ormai divenuta opinione comune, neppure più contestata da alcuno. Basta ascoltare un qualsiasi talk show televisivo, non c’è nemmeno bisogno di avventurarsi in letture più impegnative, in interviste pensose o quant’altro. E’ sufficiente ascoltare una qualunque domanda sul “futuro della Sinistra” fatta da un qualsiasi giornalista. Che tutto ciò sia accaduto, durante questi anni di vita del Partito democratico, nel silenzio quasi assoluto dei cattolici democratici (accusati anzi, nella loro veste di “ex democristiani”, d’essersi impadroniti di quasi tutte le leve di potere del partito) è francamente sconfortante.
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Quanto detto sin qui è importante, molto importante, rispetto al tema su quale sia l’anima del Partito democratico. La questione identitaria è basilare per una forza politica: quindi va ripresa con serietà. Non è tempo perso, come taluno dispregiativamente ritiene. Temo però non avverrà, ma in questo caso i suoi problemi di fondo il Pd non li risolverà. Vi sono comunque altri punti che in qualche modo erano stati posti fra gli aspetti fondamentali del partito; e allora, sempre al fine di immaginare un futuro possibile cercando di non ripetere errori compiuti nel passato, è bene riandare allo sviluppo storico dei principali fra essi: la “vocazione maggioritaria” e le “Primarie”. A seguire occorrerà far cenno ad un classico della politica, la questione delle alleanze: un terreno sul quale Enrico Letta si è avventurato subito, e con piena ragione in quanto la pretesa maggioritaria del Pd oggi è palesemente irrealizzabile e quindi, se la si vuole mantenere quale riferimento di fondo, la si deve interpretare e declinare in maniera completamente nuova. Ma come? Ricordare, sia pure per sommi capi, come è andata sin qui può aiutare a trovare una risposta.

 

Cito Bettini, l’ideologo del Pd zingarettiano che però interpretava un ruolo analogo (che credo nessuno gli abbia mai assegnato, né allora né ora) ai tempi della sua nascita, che in diverse interviste (qui, a la Stampa, 27 dicembre 2020) ha giudicato ormai superata la vocazione maggioritaria: “fu una ispirazione generosa, appassionata, allora realistica. Veltroni la interpretò in modo straordinario. Fu tra gli ultimi aneliti di una politica civile, fondata su una visione e su una proposta. Intimamente antipopulista. E’ durata poco, per le precoci dimissioni del segretario. Pretendere che il Pd rilanci questa ambizione oggi sarebbe presuntuoso e arrogante. Ci isolerebbe, come è accaduto nelle ultime elezioni politiche, nelle quali parte del nostro popolo si è riparato sotto altre bandiere; persino quelle di destra. Il proporzionale, al contrario, potrebbe favorire maggiormente il radicamento di ogni forza democratica e la pazienza e l’umiltà unitaria verso gli altri”.
Questa non è una valutazione da poco, in quanto azzera una delle motivazioni di base della scelta di dar vita al Pd. Al punto che oggi Letta la accantona, ma per farlo deve, inevitabilmente, rilanciare il maggioritario e provare a rinverdire l’Ulivo, ovviamente aggiornato, riveduto e corretto. Ma ci arriveremo. Ora ripercorriamo per un momento il cammino avviato a suo tempo, oggi stroncato da Bettini. L’incontro fra le culture politiche popolari che avevano caratterizzato la Prima Repubblica era la ragione per così dire “ideale” del Pd. Lo sviluppo in partito dell’alleanza dell’Ulivo era quella “organizzativa”. La vocazione maggioritaria era la derivazione diciamo “motivazionale” dell’impianto elettorale maggioritario e non più proporzionale e ancor più dell’assunto bipolare, per cui lo scontro tra due fronti – centrodestra e centrosinistra – e tra due leader – Berlusconi e Prodi – avrebbe dovuto riformularsi, all’americana, tra due partiti, Forza Italia o una sua eventuale nuova denominazione, che infatti arriverà, e appunto Partito democratico. Poiché le cose però non sono mai così semplici, lo stesso Veltroni fu il primo a “correggere” l’assunto di partenza facendo un’alleanza elettorale con i Radicali e con il partito personale dell’ex magistrato Antonio Di Pietro (una scelta che in Parlamento creò solo problemi al Pd senza risultare utile ai fini della vittoria elettorale). Il risultato ottenuto nelle elezioni del 2008 fu molto buono, superiore al 30% ma assai lontano dal 51%. Esso fu determinante per lo sviluppo, rapido, degli eventi successivi: il colpo d’ala della bellissima e imponente manifestazione al Circo Massimo, l’attacco durissimo alla guida veltroniana condotto da quasi tutto il gruppo dirigente ex comunista guidato da D’Alema, il cui giudizio tranchant sull’idea stessa del Pd venne espresso nella direzione nazionale (“l’amalgama non riuscito”), le sconfitte elettorali in due regioni, l’arrendevolezza del segretario sfociata nelle sue improvvide e intempestive dimissioni.
Il tutto in un contesto generale di incipiente crisi finanziaria e poi economica, essa pure probabilmente una delle ragioni del fallimento dell’ambizioso progetto dem: perché il partito – occorre riconoscerlo – era sorto anche sull’onda di un ottimistico programma liberal – il discorso del Lingotto ne fu la celebrazione – che spingeva molto su un’idea di società nella quale prevaleva l’idea del “consumatore” rispetto a quella del “cittadino” (un approccio che era già stato della rutelliana Margherita che gli ex Popolari avevano fatto proprio o, tranne eccezioni, non avevano comunque contestato) in un tardo blairismo che la crisi innescata dai mutui subprime americani avrebbe travolto. Così che a nemmeno due anni dalla sua nascita il Pd aveva visto essere poste in dubbio tutte le ragioni che l’avevano determinata: quella “ideale” seppellita da D’Alema, quella “organizzativa” abbattuta dalla dichiarazione di sconfitta insita nelle dimissioni del segretario; quella “motivazionale” determinata dal raggiungimento di una percentuale elettorale largamente insufficiente per giustificarla (alle elezioni europee del 2009 Franceschini, segretario di transizione, fu bravo ad evitare la debacle da alcuni prevista, prendendo però circa dieci punti percentuali in meno rispetto all’anno precedente). Il terreno era dunque pronto per il ritorno della “Ditta”, e così fu con la vittoria di Bersani alle primarie contro lo stesso Franceschini.
Il Pd originario, probabilmente a questo punto velleitario, non c’era già più. Rutelli lo aveva intuito per primo e se ne andò immaginando di poter lucrare sulla disillusione di molti. Ma così non fu, perché il “momento-Margherita” si era concluso. Franceschini e Marini decisero nel giro di neppure un anno di accordarsi con Bersani e D’Alema: scelta di legittima realpolitik che avrebbe garantito qualche buona rendita di potere ma che impedì agli ex Popolari qualsiasi iniziativa volta a contrastare la torsione di 180° che la guida bersaniana fece fare al partito: lo spostamento verso una sinistra tradizionale anch’essa, come il suo opposto socialdemocratico, superata dai tempi; il rafforzamento del partito dei funzionari-politici secondo lo schema del PCI (burocrati cresciuti nelle stanze del partito in luogo di persone cresciute professionalmente nella società esterna alla politica e quindi maggiormente avvertite di quello che in essa si muove e cresce); il collateralismo con una CGIL incapace di comprendere il divario crescente fra lavoratori tutelati e lavoratori non tutelati; e, progressivamente, una qual certa tentazione – questa invece era una novità – ad accarezzare quella vena populista e antipolitica che si stava sviluppando sull’onda del “vaffa” grillino e della criminalizzazione della “casta” politica condotta dai principali gruppi editoriali: non comprendendo che così facendo si dava ragione ai contestatori, mentre si sarebbe dovuto procedere a riforme radicali, certamente, ma ribadendo l’importanza della politica, dei partiti, delle istituzioni della democrazia rappresentativa.
Scelte che saranno alla base della mancata vittoria del 2013. Della quale bisogna dire due cose. La prima è che essa fu pure il risultato del consenso che Bersani fu costretto – dal Presidente Napolitano in primis – a dare al governo Monti: non esistono controprove ma si deve ammettere che eventuali elezioni anticipate nella primavera 2012 non è detto che il Pd non le avrebbe vinte (anche se certo non stravinte). La seconda è che esse furono l’occasione per decimare la rappresentanza ex Popolare nei gruppi parlamentari. L’esito nel medio periodo della scelta – da me mai approvata e anzi contestata – di accordarsi con chi parlava del Pd come della “Ditta”, il simbolismo per dire che, di fatto, il Pd era la prosecuzione naturale del vecchio filone PCI-PdS-DS. Un errore fatale.
L’apparire sulla scena del ciclone Matteo Renzi, dopo l’umiliazione patita via streaming da Bersani nell’abortito tentativo di dialogo coi 5 Stelle e in contemporanea con il fallimentare tentativo di eleggere alla Presidenza della Repubblica prima Marini e poi Prodi, avrebbe forse potuto riportare il Pd sulla strada originaria se il sindaco di Firenze lo avesse voluto. Determinazione, energia, dialettica e capacità di tattica politica non difettavano. Con furbizia lisciava il pelo all’antipolitica imperniata sulla dura contestazione alla casta dei politici con il suo vocabolo-mantra, “rottamazione”. La provenienza dal mondo ex Popolare e la sua militanza rutelliana nella Margherita ne testimoniavano una non subordinazione alla Ditta dimostrata con forza alle Primarie per la sindacatura, nelle quali aveva abbattuto nella sua roccaforte la burocrazia locale ovvero l’apparato ex comunista. L’assalto alla segreteria si rivelò assai facile solo un anno dopo il precedente tentativo (ma in quel caso le Primarie erano state per la candidatura alla premiership e quindi fu logica la vittoria in esse di Bersani, segretario del partito principale della coalizione di centro-sinistra) ma invece di dedicarsi alla ridefinizione e alla riorganizzazione del partito Renzi decise di puntare da subito a quello che era il suo vero e unico obiettivo: Palazzo Chigi.
Uomo ambizioso e spregiudicato Renzi per forma mentis è una persona che vuole gestire il potere. Uomo d’azione, più che di pensiero. Di tattica più che di strategia. Di tempi immediati, non di orizzonti. Così per lui il partito è uno strumento nelle mani del leader il quale, in ossequio alle principali democrazie occidentali così come ad ogni autocrazia non occidentale, deve essere il capo del governo nonché l’unico conducàtor del partito medesimo. Dopo il Pd-Ditta ecco dunque il Pd-PdR, ulteriore stravolgimento dell’idea fondativa.
La vocazione maggioritaria in salsa renziana era dunque intesa in senso individualistico, incentrata sul profilo del leader. Unico e assoluto. Sul piano nazionale e internazionale. Mentre invece a livello locale si lasciavano andare le cose un po’ per conto loro: un sostegno al “capo” tanto non sarebbe mancato, posto che ovviamente la maggioranza del ceto politico preferisce stare con chi è vincente, e lo straordinario risultato elettorale alle europee del 2014 (in larga misura drogato da fattori che qui però non posso analizzare) era lì a dimostrare “chi” era il vincente.
Questa presunzione di potere quasi assoluto nel partito, declinata poi in maniera differente a seconda della personalità del leader di turno, deriva dall’altro elemento fondante del Pd, cui abbiamo già fatto cenno: le Primarie, ovvero l’elezione diretta del Segretario Nazionale (e per un certo periodo anche di quelli regionali) tramite una votazione popolare aperta a chiunque aderisca ad un manifesto alquanto generico di supporto alle idee del partito finanziando l’iniziativa con un modestissimo obolo. L’idea ai tempi rispecchiava – volendola giudicare benevolmente – l’apertura estrema alla società, ai cittadini tutti: cosa, di più, se non addirittura l’elezione del proprio leader posta nella disponibilità degli elettori, e non dei semplici iscritti? Volendo invece essere un po’ meno ottimisti, e soprattutto meno ingenui, essa era un tentativo di incamerare nella dinamica di partito un po’ di antipolitica senza subirne troppi guai. Intendiamoci: l’idea ha fruttato – nelle prime esperienze – bene, coinvolgendo effettivamente due-tre milioni di persone che hanno fatto la fila ai gazebo, versato il contributo, votato un candidato. Insomma, che hanno partecipato. Non si è trattato, dunque, di un’idea peregrina, a cominciare dal suo evocativo messaggio partecipativo. Quel successo di immagine, però, nascondeva alcuni problemi assai rilevanti che nel tempo si sono evidenziati indebolendo così, oltre che lo stesso partito, anche lo strumento in sé, talché le ultime edizioni (la seconda elezione di Renzi e poi quella di Zingaretti) hanno registrato un sensibile calo di partecipazione.
Le Primarie hanno incentrato tutto sul candidato. Si è sempre votato un nome, mai un preciso impegno programmatico. Certo, i programmi c’erano, i volantini pure e così i post sui social da quando questi ultimi sono arrivati. Ma la vera competizione è stata sempre e solo sui nomi. Sul nome del candidato e nemmeno su una sua eventuale squadra a supporto. E poi, competizione? Quale competizione? Non c’è stata una Primaria che una nella quale non si sapesse in partenza chi sarebbe stato il vincitore, e per di più con un margine netto. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Le candidature di Bindi e Letta in contrapposizione a Veltroni furono un modo per crearsi una nicchia nel partito, spaccando così fin da subito gli ex Popolari come da tradizione: Franceschini e Marini, e molti altri, sostennero il vincitore, che venne votato da tutti gli ex DS (anche da quanti lo fecero solo in ossequio agli ordini ricevuti, pronti a mollarlo alla prima occasione utile). Lo scontro Bersani-Franceschini divise per un breve periodo ex DS ed ex Margherita ma in un modo assai soft, essendo scontato il risultato finale. Le Primarie Bersani-Renzi-Tabacci erano per la guida del centro-sinistra, non per quella del partito. Vengono ricordate per l’ottima performance renziana, ma pure in questo caso la vittoria del segretario del Pd era scontata. Quelle successive alla caduta di Bersani furono vinte nettamente da Renzi contro Cuperlo e Civati col concorso di larga fetta della base ex diessina, ammaliata dalla brillante oratoria del sindaco di Firenze, suggestionata da quel poco o tanto di sentimento anticasta penetrato pure in essa ed elevato a slogan col mantra della “rottamazione” e del conseguente ricambio generazionale, delusa e stanca dalle ripetute sconfitte elettorali. Primarie più interessanti, queste, e infatti generarono un cambiamento notevole nel partito. Ma pure queste dal risultato scontato. E in ogni caso le ultime di un certo rilievo. Quelle della rielezione di Renzi dopo la sconfitta referendaria, contro Martina (un’opposizione peraltro non solo garbata dovuta ai modi gentili della persona ma anche assai pallida nei confronti del suo ex Presidente del Consiglio che lo aveva fatto Ministro) e Orlando (erede non particolarmente carismatico della tradizione di sinistra) furono assolutamente inutili, poco vissute e vinte dal segretario uscente senza alcuna difficoltà. Furono anche la dimostrazione evidente che lo strumento non appassionava più. Infine le ultime: una competizione anche in questo caso alquanto stanca e moscia vinta senza patemi da Zingaretti in un partito tramortito dalla severa sconfitta subìta alle elezioni politiche del 2018.
Le Primarie hanno svalutato l’appartenenza, dimostrata attraverso il tesseramento, al partito. Intendiamoci: il partito di quadri-militanti, spesso col tempo rinchiusosi al proprio interno espungendo chiunque volesse conquistarlo, dall’esterno, dalla società, non esiste più da tempo. E i vari tentativi ideati per rinnovarlo e aggiornarlo (circoli tematici, sezioni presso ambienti lavorativi, assemblee degli esterni e quant’altro) non hanno mai – in qualunque formazione politica – funzionato. Quindi il problema della mancata rappresentazione sociale (che invece nei vecchi partiti popolari del secolo scorso c’era, eccome se c’era) è reale. Ma non è stato risolto dalle Primarie. Che al tempo stesso hanno indebolito e, diciamolo pure, un po’ anche immalinconito il socio, il tesserato, colui il quale vuole dare qualcosa di più al partito: certo, qui si parla del tesserato vero, non di quello meramente nominativo (un ulteriore problema ereditato dal passato). Anche se ormai acciaccata e probabilmente destinata ad essere superata, la tessera ha perso, con le Primarie, molto del suo residuo valore. E infatti il tesseramento si è definitivamente ridotto ad essere uno stanco rito più o meno annuale condotto con sempre minor entusiasmo da affaticati segretari di sezione.
Ma soprattutto le Primarie hanno contribuito in modo decisivo, io credo, ad annullare qualsiasi ricerca di senso, di identità al Pd. Riducendo il tutto ad una conta, e per di più effimera in quanto dal risultato scontato. E la questione non è secondaria, perché come si è visto quello che col tempo è mancato al Pd è un suo perché, una risposta convincente alla domanda “cosa propone il Pd”, in virtù di “quali idee di fondo”, di “quale idea di società”. Non avendo risposte precise a quelle domande, il Pd è stato progressivamente abbandonato da quei tanti italiani che pure in esso agli inizi avevano riposto una speranza, riducendone il consenso a poco più della stretta cerchia dei vecchi elettori della sinistra dc (e neppure tutti) e del PCI-PdS (e neppure tutti). Oltre a un po’ di giovani, ma non troppi.
***
Le alleanze sono importanti. Sono un tratto distintivo non solo di una politica, bensì pure della propria identità. Salvo in periodi di straordinaria emergenza, quando occorre superare i recinti tradizionali nell’interesse nazionale. Questo è uno di quei momenti. Non durerà per sempre, fortunatamente. Altrimenti sarebbe un gran guaio. Allora parlando di alleanze bisogna proiettare lo sguardo un po’ in avanti. Diciamo al 2022 o magari, proviamo, all’autunno di quest’anno. Posto che col 20% attribuito al Pd dai sondaggi (ma foss’anche il 25%) non è immaginabile conseguire una maggioranza parlamentare. Posto che l’attuale conformazione di quello che viene chiamato “centrodestra”, ma che in realtà da qualche anno è ormai un “destracentro” se non una destra tout court, è sondata intorno al 45-50% come può il Pd cercare di individuare un’alleanza che lo renda competitivo per la vittoria?
Il primo elemento sul quale ragionare è la legge elettorale. Da esso non si può prescindere. E qui c’è subito un problema. Perché al momento nessuno sa con quale legge elettorale si voterà alle prossime politiche. Questa, per inciso, è una delle anomalie italiane che va assolutamente superata. Non è possibile continuare a cambiare le regole del gioco in funzione della maggioranza parlamentare del momento. E’ quello che è accaduto negli ultimi vent’anni.


Bisognerà – a larghissima maggioranza – decidere se avere una legge elettorale maggioritaria (quanto, con quali correttivi sarà poi definito con la scrittura della norma) o al contrario proporzionale (anche qui, con gli opportuni correttivi quali ad esempio una soglia minima, da definire in corso di scrittura della legge). E, una volta approvata a grande maggioranza, non toccarla più per molto tempo. Come è nelle altre democrazie. Compito difficile, ma indispensabile.
In linea teorica il periodo del governo Draghi dovrebbe essere utilizzato dal Parlamento soprattutto a questo fine. C’è purtroppo, però, da dubitarne in quanto le tattiche sono preferite alle strategie dall’attuale classe dirigente politica, palesemente di livello inferiore alla media che un Paese rilevante come l’Italia meriterebbe.
E così torniamo al punto di partenza. La situazione attuale. La legge esistente, il c.d. “Rosatellum”, con la quale si è votato nel 2018, è di impianto maggioritario (non è qui il caso di entrare nei dettagli). Durante l’anno del governo Conte 2 era parsa avanzare nell’opinione dei partiti l’idea di tornare a un proporzionale dotato di qualche correttivo. E’ ovvio, e facilmente comprensibile, che con la legge in vigore le alleanze necessariamente devono ruotare interno a schieramenti formati da pochi, principali, partiti (come poi essi definiscano le liste, includendo anche rappresentanti di altre, minori, formazioni politiche è affar loro). Invece, con un eventuale proporzionale le alleanze si farebbero fra più partiti, piccoli, piccolissimi, medi, e probabilmente ad elezioni avvenute e non prima. Ora, al di là delle preferenze (non è questo il tema di questo scritto, in questo momento) il problema non è di poco conto: sin quando non si saprà con certezza con quale legge si voterà nessun partito sarà sicuro al 100% di cosa poi effettivamente farà. Questa è la verità.
***
Per concludere. Obiettivo dichiarato di Letta è vincere le prossime elezioni politiche alla testa di una coalizione guidata dal Partito democratico. Un partito e una coalizione aventi i giovani e le donne quali principali punti di riferimento e fonte d’ispirazione. Mi permetto di dire che non basta.
Occorrono almeno tre altre condizioni. La prima, come detto, è una legge elettorale di stampo maggioritario diversa da quella attualmente in vigore. E questo il segretario del Pd lo sa bene, tanto è vero che sta sondando il terreno per capire quante possibilità reali vi siano per un sistema a doppio turno con soglia al 3%, con vincitore al primo solo col superamento del 40% dei votanti (attenzione, non degli aventi diritto: quindi è un’asticella alta) e con ballottaggio fra le due coalizioni (o partiti) meglio piazzate al primo turno. Il premio al vincitore sarebbe il 55% dei seggi parlamentari, così da non consentirgli di eleggersi da solo il Capo dello Stato o di cambiare la Costituzione. Come si intuisce, non sarà facile “trovare la quadra” con tutti gli altri partiti.
Inoltre occorre, davvero, un programma che con rara intensità e discreta precisione proponga agli italiani uno sviluppo economico compatibile con una più equa ripartizione sociale della crescita, con una effettiva sostenibilità ambientale, con una gestione efficiente di uno Stato sociale da rinvigorire, ammodernandolo e rilanciandolo. Anche questo credo sia ben presente a Letta. Si tratta però di saperlo definire e poi declinare in un testo comprensibile ma non eccessivamente stilizzato, in quanto non esistono slogan sufficienti a spiegare come uscire da una situazione complessa. Perché la situazione, terminata la pandemia, si presenterà – con un debito pubblico esorbitante e un tasso di occupazione alquanto diminuito – per quello che già oggi è: molto difficile.


Ciò che conterà di più, però, ed è la terza condizione, sarà quella che oggi al Pd manca, o comunque non si vede per nulla: una tensione ideale per migliorare il vivere sociale. Non la si può costruire a tavolino. O c’è o non c’è. E se c’è lo si percepisce, anche da come i componenti del partito interagiscono fra loro e nei rapporti con gli altri: si capisce che fanno parte con convinzione di un’unica squadra impegnata per il bene collettivo. Questa tensione si genera perché si hanno dei valori comuni dai quali derivano obiettivi comuni. Tali da generare fiducia e speranza.
Solo così si potrà essere credibili in quell’esercizio di “prossimità” alla vita di tutti i giorni della gente comune che Enrico Letta vede giustamente come la cifra principale del proprio partito. Volendo osare, si potrebbe citare il “vivere con il popolo e per il popolo” di Jacques Maritain. Ma forse è troppo. Basterebbe, più modestamente, saper infondere negli altri la sensazione che si crede davvero in quello che si sta facendo, perché è parte del proprio modo di intendere la vita. Sarà possibile? Difficile a dirsi. Ma proprio questa è la prova decisiva. Per tutti.
Inclusi quei cattolici democratici che vogliono credere ancora nell’autenticità del progetto politico immaginato a suo tempo. La loro, la nostra, è una cultura che può offrire ancora molto ad una società che sta scoprendo, durante questi lunghi mesi così tristi e bui, quanto il valore della solidarietà diffusa possa migliorare la condizione esistenziale di ciascuno. Bisogna però avere la voglia, la determinazione per renderla, questa cultura così ricca e attuale, presente e non negletta nel Partito democratico. A livello di base, innanzitutto.
Il presente scritto vuole essere semplicemente, attraverso la pur sommaria riflessione su alcuni errori compiuti nel passato, uno stimolo per provare a ritrovare quella necessaria determinazione.

 


Enrico Farinone
Arcore, 7 aprile 2021

 

Veltroni-Corriere sul caso Moro. Accuse gravi senza prove

 

9 Aprile 2021

Da oltre un anno il Corriere della sera riserva al caso Moro paginate su paginate con interviste che
portano la firma di Walter Veltroni. Nell’ultima della lunga serie, a Gennaro Acquaviva, capo della
segreteria politica di Craxi, ci è toccato di leggere che il leder socialista sarebbe stato “il sostituto-
prosecutore dell’opera di Moro”. Ogni commento è superfluo. Ma ciò che più sorprende è che
Veltroni, non un cronista qualsiasi, senza battere ciglio, persista nel veicolare la tesi dei socialisti
del tempo (Formica, Signorile, Martelli, Acquaviva): Moro poteva essere salvato, ma tutti, senza
eccezioni, lo volevano morto, perché tutti, si insiste, ai vertici della Dc e dello Stato sapevano che
fosse agibile un canale diretto con i terroristi che tenevano in ostaggio il leader Dc.
Non nascondo il mio disappunto non solo per il semplicismo e l’univocità della tesi, ma anche
perché nessuno ad essa reagisce come si conviene. Eppure ancora vivono alcuni testimoni e persino
attori-protagonisti di quella pagina drammatica. Davvero tutto era così chiaro e così semplice? Una
tale teoria non è infamante – faccio solo qualche nome – per Zaccagnini, Salvi, Galloni, Elia e molti
altri dirigenti Dc di quel tempo che non possono più replicare?
Personalmente non ho motivo per intestarmi difese d’ufficio. Al tempo del sequestro Moro ero
giovane e non facevo politica, ma partecipai con grande intensità emotiva a quel dramma: lavoravo
al fianco di Giuseppe Lazzati, costituente, rettore della Cattolica, sincero amico ed estimatore di
Moro, che tuttavia mai nutrì dubbi sulla linea della fermezza. Pur con una indicibile sofferenza. Ma
il punto non è questo. Si può pensarla diversamente. L’importante è non mistificare i fatti.
Voglio essere franco: mi hanno turbato e disturbato le interviste del Corriere ai socialisti che, in
forme più o meno aperte, hanno sostenuto che i vertici politici e istituzionali tutti – notare: targati
Dc –  fossero a conoscenza della possibilità di raggiungere i brigatisti che tenevano in ostaggio
Moro, solo che non vollero spendersi davvero per la sua liberazione. Scusate se è accusa da poco!
Una versione della quale non c’è prova. Semmai smentita da vari testimoni.
Tantomeno ho apprezzato che a mettere la firma in calce a quella inchiesta sia non un giornalista
qualsiasi, ma una persona come Veltroni che ha avuto alte responsabilità politico-istituzionali. La
domanda suscitata in me da quelle paginate è quale mai sia l’intento di Veltroni in quella che
sembra una campagna a tesi. Davvero non mi spiego. Forse quello di prendere le distanze dal
vecchio Pci e dalla sua linea della fermezza, nel solco dell’outing  veltroniano secondo il quale lui
non sarebbe mai stato comunista? Salvo poi (“ma anche”) proporsi come apologeta e “ragazzo” di
Berlinguer.

Non sarò io a negare le tante, troppe pagine oscure di quella tragedia nazionale. In particolare le
ombre rappresentate dall’inquinamento piduista del Viminale, le inefficienze e le omissioni degli
apparati di sicurezza. Anche io faccio fatica a credere che non vi siano stati condizionamenti e
interferenze esterne alle Br. Né compete a me, che non avevo responsabilità alcuna, difendere i
vertici Dc di allora – Zaccagnini e i suoi più stretti collaboratori – più o meno esplicitamente
accusati di inerzia se non di complicità. Ma trovo l’operazione grossolana, semplicistica (come se la
liberazione di Moro fosse cosa facile) e persino infamante per chi si assunse la grave responsabilità
di non scendere a patti con i terroristi. In nome di un’etica della responsabilità in capo a uomini
dello Stato che, noto, con il senno di poi e con una certa leggerezza, si tende a rappresentare come
un alibi pretestuoso e bugiardo.
A distanza di tanti anni e alla luce di ciò che è affiorato poi, si può anche rivedere qualche giudizio,

si deve di sicuro sostenere che non lo Stato come tale, ma quel concreto Stato e chi lo rappresentava
pro tempore, rivelatisi così inadeguati, per trasparenza ed efficacia, non furono all’altezza del loro
compito e anche a pensare che forse l’esito avrebbe potuto essere diverso (anche se molti elementi
conducono a ritenere che quello intessuto dai rapitori fosse un finto negoziato e che dunque il
tragico epilogo fosse scritto). Ma da qui a concludere che tutti sapevano e tutti non vollero liberare
Moro ne corre.
Guido Bodrato, persona limpida e allora stretto collaboratore di Zaccagnini, ha chiarito sul punto
cruciale: del canale aperto con i rapitori rappresentato da Piperno e Pace non è vero che i vertici Dc
fossero  a conoscenza. Comunque non Zaccagnini e i suoi collaboratori. Lo erano esponenti
socialisti che oggi lo rivendicano come un merito e si spingono sino a imputare ad altri la colpa di
non essersene avvalsi. Per parte mia, all’opposto, non giudico affatto come un merito l’avere
intrattenuto relazioni tanto pericolose con soggetti immersi nell’acquario torbido nel quale
nuotavano i pesci del terrorismo. Costoro avrebbero dovuto cooperare allora, con trasparenza e
senza secondi fini, con le autorità per stanare i rapitori e non muovere ora ad altri accuse tanto
infamanti quanto indimostrate.
Tali comportamenti al limite della provocazione semmai mi confermano in una convinzione: che, a
fronte di chi – ve ne furono allora e ve ne sono oggi – sosteneva con limpida coscienza la linea della
trattativa (salvo una massima indeterminatezza circa le concrete concessioni cui accedere), vi
fossero altri che erano mossi da ragioni politiche non altrettanto innocenti. Diciamo non di natura
umanitaria. Per parte mia, non ho cambiato idea (ma, ripeto, si può avere opinione diversa): penso
che, allora, in concreto, non si dessero alternative alla linea della fermezza e che un cedimento
avrebbe travolto le istituzioni. Oltre che le due forze, Dc e Pci, architrave del sistema politico. Per
essere più schietto: le pesanti accuse e il polverone sollevato a tanta distanza di tempo dai vari
Formica e Signorile semmai mi confermano nell’opinione che al conclamato umanitarismo nel Psi,
dentro quella distretta, si associasse un calcolo politico mirato a profittarne per mettere in scacco i
due principali partiti schierati sulla linea della fermezza. In coerenza con la strategia craxiana decisa
a farsi largo con ogni mezzo tra Dc e Pci, rovesciando i rapporti di forza a sinistra. La circostanza
che siano trascorsi tanti anni non è una buona ragione perché ex politici e improvvisati giornalisti –
e chi malamente fa entrambe le parti in commedia – trattino una materia così incandescente con tale
disinvoltura.
 
Franco Monaco

Gli Auguri di Natale Mario Mauri

Auguri agli amici del Circolo Marcora.          Milano 7 dicembre 2020

Quest'anno il Buon Natale è ovviamente accompagnato dalla speranza di venir fuori presto da questa storia della epidemia che, tuttavia,
insieme ai tanti danni che ci ha procurato, ha anche avuto - per noi ottanta/novantenni - una specie di effetto "ringiovanente", nel senso
che ci ha fatto fare una esperienza nuova rispetto al frequente ritornello "le abbiamo viste tutte". Questa è stata una novità che abbiamo condiviso come tale con quelli più giovani di noi.
Indietro negli anni ci hanno riportato quest'anno, anche due solenni anniversari: il cinquantesimo compleanno dello statuto dei lavoratori
e delle Regioni, due riforme che, ognuno di noi nei ruoli diversi di gregari o dirigenti, di elettori o eletti e comunque di partecipanti a
complessi e infuocati dibattiti, abbiamo costruito nel paese.

Dello Statuto, noi che facevamo parte della sinistra democristiana, possiamo dire con soddisfazione che è diventato una bandiera di tutta
la sinistra (i comunisti non lo votarono in Parlamento, noi sì); delle Regioni dobbiamo dire che le volevamo come riforma in senso
autonomistico dello Stato e le abbiamo avute come articolazione periferica dello Stato centralista. Una riforma a metà, una mezza delusione.

Segnalo in proposito un bel libro nuovo del leader autonomista di quegli anni. Piero Bassetti, "Oltre lo specchio di Alice" editore Guerini e associati.
Infine il ricordo di una nostra intelligente, colta e simpatica amica dei tempi dello "Stato democratico": Lidia Menapace, che ci lasciato
qualche giorno fa. Negli anni 60 del secolo scorso veniva nella sede di via Cosimo del Fante a portarci i suoi articoli per la rivista. Ricordo in
particolare una serie di interventi sul vocabolario della politica che farò di tutto riproporre agli amici in qualche modo: ci portava per
mano a scoprire come la cultura cattolica avesse una casa politica nel campo della difesa e della promozione degli ideali di democrazia e di
libertà al di là di ogni polveroso dogmatismo.


Auguri e a presto


Mario Mauri

Mario Mauri: riflessioni su Statuto dei lavoratori

Ci sono stati in particolare due anniversari che, penso, ci hanno sollecitato alla rievocazione di fatti ai quali abbiamo partecipato, a suo tempo, con entusiasmo e baldanza.


Si tratta dello Statuto dei lavoratori, che divenne legge nel 1970, e della elezione della prima giunta regionale lombarda, presieduta da Piero Bassetti, nel luglio dello stesso anno.


Mi sembra che le due ricorrenze siano passate in tono minore e me ne sono chiesto il perché.


Per quanto riguarda lo Statuto dei lavoratori, incluso il fatidico articolo18, la celebrazione era un impegno della sinistra che ne ha fatto una bandiera di lotte politiche e di battaglie del mondo del lavoro.

Senonché a mettere un po' la sordina agli entusiasmi celebrativi è stato il ricordo che lo statuto dei lavoratori non fu affatto votato dalle sinistre: comunisti e socialproletari si astennero perché lo statuto dei lavoratori fu un prodotto del governo di centro sinistra presieduto dal democristiano Mariano Rumor, ministro del Lavoro, il democristiano Carlo Donat Cattin, sottosegretario al Lavoro il democristiano Leandro Rampa che fu tra l'altro l'estensore materiale dell'emendamento passato alla storia come articolo 18 sul reintegro nei posti di lavoro dei lavoratori licenziati illegittimamente.


Di questi personaggi naturalmente nessuno ha parlato.

Frequenti invece le citazioni di Brodolini, ministro del Lavoro socialista che mancò purtroppo in largo anticipo rispetto al varo parlamentare dello Statuto; frequenti le citazioni di un discorso dello storico segretario generale della CGIL, Di Vittorio, che rivendicava l'obiettivo dello Statuto negli anni '50, ma omettendo che il valoroso sindacalista nel 1970 era già morto da circa quindici anni nella solitudine politica in cui lo aveva relegato il congresso comunista che condannò il suo rifiuto di condannare la rivoluzione ungherese del 1956.
Ho visto citato giustamente tra i sostenitori dello Statuto il socialista Gino Giugni, presidente di una commissione parlamentare e una sua polemica in proposito con Donat Cattin.

Il problema era che il ministro era cresciuto alla dura scuola del sindacalismo FIAT mentre Giugni veniva da seminari di studio negli Stati Uniti sull'associazionismo tra i lavoratori.


Morale: il 50° ha fatto giustizia di tanti luoghi comuni sui rapporti tra sinistra e reali interessi del mondo del lavoro. Ma qualcosa diremo anche sulla celebrazione del compleanno della Regione.

 

UN NUOVO SOGGETTO POLITICO D’ISPIRAZIONE CRISTIANA E POPOLARE?

Avevo sottoscritto il “Manifesto Zamagni” (che ipotizza la creazione di un “soggetto politico ‘nuovo’ d’ispirazione cristiana e popolare”) un po’ affrettatamente, senza averlo cioè debitamente approfondito. E per questo mi scuso. L’ho “studiato” in questi giorni nella tranquillità della località montana che sto frequentando, leggendo anche le tante, diverse opinioni che sul tema sono state espresse. E sono arrivato alla conclusione (o quasi) che l’idea, oggi, di un “partito cattolico”, pur aperto a credenti e non, non mi convince. Certo, io condivido in partenza una visione personalista dell’economia, della società, e dello Stato -uno Stato in ogni caso radicato nella prospettiva europea, e nel quale la “cosa pubblica” funzioni al meglio-, la piena valorizzazione delle formazioni sociali e dei corpi intermedi (come si conviene a un ben inteso principio di sussidiarietà), la difesa della persona, della sua dignità in tutti gli stadi di vita, e della famiglia. Però ho perplessità non da poco, ribadisco, ad utilizzare oggi, in politica, il termine “cattolico” legato a un partito. Tanto più considerando quanto sta giusto accadendo nel “mondo cattolico” negli ultimi anni. In particolare, dal momento dell’arrivo di papa Francesco. Oggi, lo sappiamo, la Chiesa sta vivendo un momento assai difficile, e Colui che dovrebbe essere il simbolo della sua unità è sotto un attacco fortissimo, anche, o forse soprattutto, all’interno. Vale a dire persino da una pur assolutamente minoritaria parte della gerarchia. Troppo facile, naturalmente, partire dalla vicenda dell’ex nunzio apostolico negli Usa, mons. Carlo Maria Viganò, “nemico” di Bergoglio e “amico” di Donald Trump, il “figlio della luce", cui monsignore ha dedicato la nota “lettera aperta” del 6 giugno, dopo aver sottoscritto, insieme, tra l’altro, a tre cardinali e otto vescovi, un appello contro il “Nuovo ordine mondiale”. Interessante leggere allora anche solo un pezzo di detta lettera: “…da una parte vi sono quanti, pur con mille difetti e debolezze, sono animati dal desiderio di compiere il bene, essere onesti, costituire una famiglia, impegnarsi nel lavoro, dare prosperità alla Patria, soccorrere i bisognosi, nell’obbedienza alla Legge di Dio, il Regno dei cieli. Dall’altra si trovano coloro che servono se stessi, non hanno principi morali, vogliono demolire la famiglia e la Nazione, fomentare le divisioni intestine e le guerre, accumulare il potere e il denaro: per costoro l’illusione fallace di un benessere temporale rivelerà –se non si ravvedono- la tremenda sorte che li aspetta, lontano da Dio, nella dannazione eterna. Nella società, Signor Presidente, convivono queste due realtà contrapposte, eterne nemiche come eternamente nemici sono Dio e Satana”. "Per la prima volta, gli Stati Uniti hanno in Lei un Presidente che difende coraggiosamente il diritto alla vita, che non si vergogna di denunciare le persecuzioni dei cristiani nel mondo, che parla di Gesù Cristo e del diritto dei cittadini alla libertà di culto….”.
Donald santo subito, dunque!
Va segnalato in proposito che l’ex nunzio è noto per essersi scagliato da tempo contro il Concilio Vaticano II, da lui definito come un “focolaio di eresie”, che deve essere lasciato cadere in toto, dimenticato. L’intero Concilio ha da essere cestinato, a suo dire, mentre taluni suoi amici si limitano invece a chiedere, bontà loro, che vangano “corretti” singoli errori di dottrina contenuti nei documenti conciliari.
Ecco, pertanto, il punto: questo papa è sotto attacco perché, ringraziando Iddio, ci sta dando quotidiane lezioni di che cosa significhi essere “cristiani” oggi, nella società “post-moderna”. Si rifà, così, alle definizioni “pastorali”, e non solo, dell’ultimo Concilio, definizioni che hanno provocato anche un ripensamento della concezione intellettualistica, manualistica, “scolastica”, della teologia. Promuovendo così una nuova teologia che, coniugando “trascendenza” e “immanenza”, tenga conto della “storia” e del suo evolversi, pur senza dimenticare affatto, naturalmente, il “fondamento” del cristianesimo stesso. Una teologia, nella debita misura, finalmente anche “antropologica”, pertanto.
Il problema è che questa posizione di Francesco, che finisce con avere inevitabilmente qualche significativo riflesso sulla stessa politica, è invisa non soltanto a Viganò & C., ma anche a consistenti gruppi di cristiano/cattolici conservatori, integralisti, reazionari. Negli Usa, ma non solo. Gruppi che riscuotono infatti simpatie anche altrove, Italia compresa, se non soprattutto. Negli ambienti salviniani in particolare, guarda caso. Così, Francesco è stato ripetutamente fischiato, il 18 maggio dello scorso anno, in piazza Duomo, a Milano, non appena il “devoto” ras della Lega (quello del rosario e del Vangelo sbandierati nei comizi) lo ha nominato. Ma il problema è anche che, da noi, dicono gli esperti, quel partito è tuttora il più votato dai “praticanti” cattolici, quelli che vanno a Messa tutte le domeniche.
Orbene: è evidente che il sottoscritto non vuole avere nulla, ma proprio nulla, a che spartire, sul piano dei valori cristiani da tradurre in politica, con detti ambienti. Perché in politica (nella DC, nel PPI, nella Margherita, nel PD) io mi sono sempre definito “cattolico” sì, ma anche, insieme, “democratico”, non scindendo mai i due termini. Certo, la Dc si definiva partito “di centro”, ma da De Gasperi e da Moro il “centro” non è mai stato considerato come un’idea statica, immobile nella sua fissità, bensì come un’idea in continuo movimento. In realtà, un centro che ha voluto sempre guardare verso le istanze della sinistra. Anche in ragione di ciò, e proprio in conseguenza della mia visione del mondo, della mia concezione antropologica, della mia cultura politica, io mi trovo più a mio agio (pur non senza qualche problema) in un partito dichiaratamente di “centrosinistra”, non di centro. Consapevole e memore che i partiti che ho frequentato sinora nella mia pur lunga esperienza politica hanno contribuito, insieme ad “altri”, alla tenuta democratica del Paese, a provare a realizzare un’economia mista, una società meno crudele di altre sul welfare, un ancoraggio istituzionale fortemente europeo. “Insieme ad altri”, dicevo. Sarà anche in ragione di ciò che, prescindendo dalla questione diciamo tecnica della legge elettorale più opportuna, io non disdegno la prospettiva del “bipolarismo”, oggi. Non parlo, dunque, di “bipartitismo” modello anglosassone, che, di fatto, mortifica la tradizione pluralista. E non mi piacciono neppure leaderismo e presidenzialismo, che deprezzano il pluralismo sociale e istituzionale. Ma considero che, pur consapevoli delle forzature del modello ipermaggioritario, non dobbiamo esorcizzare, come ha ben scritto qualche amico, i problemi e i costi delle stagioni precedenti, nelle quali elementi di consociativismo hanno concorso a propiziare l’impennata del debito pubblico e diffuse pratiche consociative.
Tutto ciò detto, sull’intera questione, avendoci, come detto, riflettuto, sto registrando con una certa simpatia i pensieri sul tema apparsi sulla rivista “Appunti” (organo dell’associazione “Città dell’uomo”, fondata da Giuseppe Lazzati), a firma, rispettivamente, di Franco Monaco e Filippo Pizzolato. Assai perplessi entrambi sul partito cattolico di centro, o come lo si voglia chiamare (ma “meglio pensare a un ambito circolare, più che centrista, capace di raccogliere suggestioni programmatiche utili a tutta la popolazione, senza distinzioni oltre a quelle che derivano dai valori consolidati della civiltà”, ha scritto un aderente all’iniziativa). Di Monaco, il quale ha tra l’altro citato la famosa frase di Martinazzoli per cui “la differenza tra moderazione e moderatismo è uguale alla differenza tra castità e impotenza”, apprezzo in particolare questo pezzo: (….nella situazione data) …“occorrono scelte di valore e ricette che sanno di radicalità, non di centro moderato". Chi ha provato nel passato a interpretare il centro moderato non ha brillato per qualità, quantità e persino durata. Il profondo disagio materiale e spirituale che affligge la società concorre a premiare le proposte radicali, non quelle moderate di centro… Il problema non è quello di una nuova offerta politica ma della razionalizzazione di un sistema politico già troppo frammentato. Serve semmai una rigenerazione dei partiti attuali”. “Occorre concorrere a organizzare un fronte largo e unitario che positivamente rappresenti un’alternativa politica all’egemonia manifesta e insidiosa di una destra illiberale, nazionalista e sovranista. Non ci possiamo permettere posizioni ambiguamente terziste”.
Pizzolato, per parte sua, è perplesso sull’idea di fare dei cattolici i “baluardi della tenuta del sistema”, a guardia di un ordine di cui in teoria continuano a contestare le ingiustizie, un’oasi roccaforte dell’esistente, votata a una moderazione che immediatamente viene scambiata per conservazione, una forza di stabilizzazione posta al centro. E ricorda che il posizionamento politico dei cattolici è sempre stato plurale, nonostante le forzature e le convenzioni storiche. “Oggi è perfino inafferrabile e indefinibile”, questo posizionamento. “Una volta, il cattolicesimo era la base della cultura popolare e dettava le scansioni della vita e gli orizzonti del sociale”, ma oggi non è più così. Con riferimento, poi, allo slogan dell’ipotizzato nuovo partito: “Antagonisti alla destra, alternativi alla sinistra” (una definizione che tenta a mio avviso con difficoltà di non mettere sullo stesso piano il tipo di diffidenza verso i due gruppi), Pizzolato obietta, ed io condivido, che non si può paragonare il Partito democratico alla destra di oggi, autoritaria e rozza. E segnala altresì che non si possono rigettare tutti i partiti, alla cui storia i cattolici hanno ampiamente contribuito. Il rischio, conclude, è quello di uno svuotamento delle componenti più ragionevoli dei due poli, contribuendo, di fatto, a una più marcata polarizzazione del Paese.
Avviandomi a concludere, mi permetto di esternare la mia convinzione che una delle ragioni (pur non espressamente dichiarata pur se, in fondo, comprensibile) dell’avversione dei fautori del nuovo partito al Pd abbia a che fare in qualche misura con la questione dei cosiddetti (una volta) “valori non negoziabili”, ben noti ai cattolici praticanti. Irrita cioè, a me pare di poter dire, il “laicismo” di una parte dei piddini, la cui rappresentante “simbolica” può essere individuata in Monica Cirinnà (ci capiamo). Sul tema, da anzianetto, oso allora fare le seguenti considerazioni: ho vissuto i tempi dei referendum del 1974 sul divorzio e di quello sull’aborto del 1981. Io, allora giovane militante dc “al fronte”, votai (ovviamente?) contro entrambi gli istituti, impegnandomi anche di persona nell’agone, diciamo, elettorale. E fui sorpreso, come buona parte dei cattolici, credo, dall’esito di dette consultazioni: nella “cattolicissima” Italia di allora, con una Chiesa ancora, diciamo, forte nella società, e il partito “d’ispirazione cristiana” con grandi posizioni di potere, il divorzio fu approvato da circa il 60% dei votanti, e, sette anni più tardi, l’aborto (argomento ovviamente ben più delicato e problematico che non il divorzio) ottenne il favore di ben il 70% dei partecipanti. Il fatto è che è la “secolarizzazione” (non tutta, certo, da disprezzare, anzi!) era avanzata già allora, e la gerarchia cattolica, e gli esponenti di peso della DC (come dimenticare le battaglie di Amintore Fanfani?) non se n’erano sufficientemente accorti. Dopo, sono arrivate le “unioni civili”, anche per le coppie omosessuali (io, che resto peraltro consapevole che le persone vanno comunque sempre rispettate, m’infastidisco un poco quando dette unioni vengono paragonate tout-court, di fatto, ai “matrimoni”). Oggi impazza la questione del “gender”, così che la differenza tra uomo e donna, ritenuta una volta un dato essenziale e imprescindibile della natura umana, è posta in discussione dalla più recente cultura sessuale. Ora c’e in ballo la proposta di legge sull’omotransfobia, che taluni temono diventi un bavaglio alla libertà d’espressione e di opinione e apra la strada a pericolose derive liberticide. E intanto le famiglie si sfasciano, i matrimoni durano poco, e non si fanno figli, è il …”refrain”. Oggi, ancora, grazie anche a internet (strumento straordinariamente positivo se si è in grado di dominarlo e di non farsi Invece plagiare), abbonda Tra l’altro la pornografia, anche nell’orribile versione pedopornografica, veicolata facilmente, appunto, attraverso gli Jphones, gli Jpad, eccetera, con le possibili conseguenze che sappiamo sui ragazzi. Sui telefonini, negli ultimi anni, c’è anche l’esplosione delle icone per i “siti di incontri”, per single e non. E la “qualità” di molti programmi TV è quella che sappiamo. In proposito non possiamo dimenticare il ruolo delle televisioni di Silvio, le prime a “sfruttare” il momento della “liberalizzazione” del sistema televisivo e a “guastare” il clima. Un Berlusconi che certi buoni centristi cattolici definivano “cattolico non comunista" (inviso, conseguentemente, ai “cattocomunisti”!).
Mia impressione è che per certi cattolici, che magari auspicano un’illusorio ed impossibile ritorno al passato, questo “marciume” (scusate il termine “moralista”) è attribuibile in gran parte alla responsabilità dei… “comunisti” (o ex), del ’68 e dei post sessantottini, dei radical-chic di sinistra, e via discorrendo. Gente che vota prevalentemente “a sinistra”, dunque, e pertanto anche il Pd. Ecco un’altra ragione, oltre alle altre più squisitamente politiche, per ritenersi, ci allora, ci dicono, “alternativi” alla sinistra. Io, invece, ho quest’opinione: i “comunisti” (passati e presenti) c’entrano poco. E non lo dico soltanto perché, avendo fatto (provenendo da una famiglia “proletaria”) il sindaco DC per anni, decenni orsono, con i “comunisti” all’opposizione, io ho sempre registrato che su non pochi valori, diciamo, cattolici” non c’erano grandi differenze tra democristiani e “compagni” di allora.
Mia convinzione, semmai, è che la situazione attuale, in Italia e nel mondo occidentale in genere, è figlia della cultura che via via negli ultimi decenni è stata inoculata in particolare dai “media” e da certi “poteri” sempre alla ricerca dell’obiettivo di “far soldi”. Comunque, e tanti. Gli adoratori del dio-denaro. Stiamo poi registrando anche i disordini, lo squilibrio e i gravi danni causati dal predominio incontrollato della finanza sull’economia reale. C’è bisogno allora, senza scomodare certo Karl Marx, di un fase di profondo ripensamento del “sistema” che abbiamo costruito, caratterizzato tra l’altro da un iperconsumismo in ogni campo. Un sistema che ha oltretutto aggravato non poco le differenze sociali: i ricchi lo sono diventati di più, e così i poveri. Un ripensamento che ci consenta di riparare almeno in parte i guasti sopra accennati. E, in questa impegnativa operazione, i cattolici, perlomeno quelli sufficientemente sensibili, possono riavere, certo, un ruolo significativo, pur militando magari in raggruppamenti politici diversi.
Tornando all’immediato, io confermo in ogni caso, per parte mia che, pur con le perplessità accennate, non mi trovo particolarmente a disagio nel PD, e non intendo cambiare. Anche perché sono convinto sia alla fine “giusto”, per uno come me, stare nell’area complessiva del centrosinistra (ma non ho più spazio, qui, per parlare anche del rapporto del centrosinistra con la “sinistra” tout court), i cui valori sono in buona parte alternativi, come ho accennato, a quelli del centrodestra, e come tali sono riconoscibili nella lotta alle diseguaglianze, alla povertà, per la giustizia, per la libertà e la dignità delle persone, immigrati compresi, per la sussidiarietà, per il lavoro, per il welfare. Una posizione, in ogni caso, che certo non impedisce ai cattolici di questa parte, ribadisco, di accordarsi, su singoli punti (ne ho giusto citati taluni, in questa mia), con quelli dell’altro fronte.
Per concludere (finalmente) davvero, segnalo che faccio allora mia la domanda che già si sono posti altri amici: può l’area del centrosinistra, con tutti i limiti e le contraddizioni che la caratterizzano, evolvere fino al punto da unificare, pur nelle specifiche diversità, questa grande area, nella convinzione che tutto ciò non solo è un valore in sé ma anche la condizione per vincere la destra e per governare?
Un’ultimissima frecciatina, in quanto tale inevitabilmente maliziosa: io sono consapevole di aver l’obbligo di rispettare comunque anche quei leader di destra e dintorni, locali e mondiali (i riferimenti non sono casuali) che hanno la tendenza, discutibile, di mostrarsi in pubblico da “devoti”. Rispettarli sì, sperando peró di non scoprire che si tratta di “cultori” della filosofia che va sotto il nome di...”vizi privati, pubbliche virtù”.

VINCENZO ORTOLINA

15 luglio 2020

il 23 febbraio Giuseppina Marcora compie 100 anni

Domani 23 febbraio Giuseppina Marcora compie 100 anni.Facciamo tanti cari auguri. Fulgido esempio di resistente per i suoi meriti di staffetta partigiana ha ottenuto innumerevoli riconoscimenti sia dal comando militare alleato generale Alexander che dal CLN e dalla FIVL. Testimone vivente dei valori della Resistenza vissuta e combattuta accanto al fratello Albertino partigiano sindaco ministro. Orgogliosi della sua appartenenza al Raggruppamento Di Dio la salutiamo pubblicando un attestato di riconoscimento del presidente Ciampi e alcune foto del 95 per il conferimento della cittadinanza onoraria di Inveruno durante il Premio Marcora. Ed anche con Pachetti e don Bonfanti .

La storia di Giuseppina più che con la penna è scritta con la vita è se mai il tempo cancellerà la memoria delle sue azioni rimarrà comunque l’impronta del suo passaggio.

Auguri Giuseppina da parte mia del Centro Studi Marcora e del Raggruppamento Di Dio.

Gianni Mainini

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CONVEGNO DI COMMEMORAZIONE DEL 20° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI LUIGI GRANELLI

CRONACA DEL CONVEGNO DEL 30.11.2019


I CATTOLICI DEMOCRATICI OGGI NELL’EREDITA’ di LUIGI GRANELLI


La bellissima e accogliente sala dell’orologio al primo piano di Palazzo Marino comincia a riempirsi di gente ben prima dell’inizio della cerimonia.
Alle 10,15 quando inizia il convegno per la celebrazione del 20° anniversario della morte di luigi Granelli il locale è stracolmo : 55 persone a sedere ,almeno il doppio in piedi.
Palazzo Marino è stato scelto perché Granelli esordisce come consigliere comunale e capogruppo DC dal 1965 al 1969 e quindi il luogo del suo primo esordio come rappresentante in consessi istituzionali.
Sono presenti tra gli altri
Roberto Mazzotta, Bruno Tabacci ,Piero Bassetti, Gilberto Bonalumi , Patrizia Toia ,Mariapia Garavaglia, Giuseppe Torchio ,Enrico Farinone, Emanuela Bajo, Nadir Tedeschi ,Arturo Bodini, Cesare Grampa, Alberto Fossati, Alberto Marini , Colombo Ambrogio, Mario Bassani ,Tiziano Garbo, Vittorio Arrigoni, Sandro Cantù , Vincenzo Ortolina, Mario Villa , Gianni Dincao ,Michele Pellegrino, Antonio Ballarin, Fausto Benzi, Franco Franzoni, ,Mario Mauri, Sergio Cazzaniga, Francesco Rivolta , Luciano Corradini , Alberto Varisco, Nerina Agazzi , Gianni Locatelli ,Remo Scherini, Luca,Barbara e Simone Marcora ,Giorgio Ferrario ,Paolo Rossetti, Lino Pogliaghi, Ernesto Cattaneo, Paolo Razzano , Vinicio Peluffo ,Giampiero Lecchi ,Alberto Mattioli, Giovanni Bottari , Cesare Grampa ,Adriana, Andrea e Rita Granelli ,Luisa e Alessandro Calcaterra ,Bandino Calcaterra, Carlo Calcaterra ,Francesco e Giacomo Gatti, Renato Ferrario, Fausto Binaghi ,Benito e Giuseppe Stinà, Fabrizio Carrera, Enzo Balboni ,Romy Gambirasio, Sara Bettinelli.


Relatori: Mainini ,Mattesini ,Scavuzzo, Castagnetti, Rognoni ( e Bassetti).


Gianni Mainini introduce il tema dell’incontro, spiegando il motivo della scelta del tema relativa alla presenza dei cattolici popolari nella società come eredità dell’insegnamento messaggio e della storia politica di Granelli.

In apertura legge il testo di un messaggio dell’arcivescovo di Milano mons. Mario Delpini che afferma che il dovere della memoria è anche un esercizio di politica: “sono valori validi e necessari ancora oggi l’onestà, la lucidità, il garbo ,la passione e la concentrazione con cui Luigi visse la sua testimonianza politica”
Chiara Mattesini ha ripercorso le tappe dell’impegno di Granelli in consiglio comunale ,essendo studiosa e cultrice della storia della Base e avendo anche pubblicato un fascicolo su Granelli in comune a Milano.
La vicesindaco Anna Scavuzzo, partendo dalla sua esperienza nel mondo dello scoutismo e del volontariato , ha voluto rimarcare l’importanza di motivare i giovani all’impegno politico.
Ha riferito sul ruolo di Granelli, definito plasticamente “la voce” e il suo ruolo all’interno della Base , Filippo Coppola, neolaureato con una tesi “La corrente di Base nel Milanese”.
Quindi la proiezione del filmato “l’ultimo discorso” a cura di Francesco e Giacomo Gatti, che ripercorre l’intervento di Luigi al congresso di Rimini del settembre 1999 ,quando si dimise dal Partito Popolare, inframmezzato con interventi e considerazioni di Chiarante ,De Rosa, Calcaterra, Capuani, Rognoni .
Pierluigi Castagnetti, eletto segretario del PPI nello stesso congresso, ha sottolineato con grande pathos l’eredità di Granelli in una politica che ha smarrito il senso del servizio, dell’impegno, dello studio e della coerenza di testimonianza e di vita.
Virginio Rognoni ha delineato quali potranno essere gli impegni futuri ,se non vogliono essere solo testimonianza, dei cattolici in politica prendendo ad esempio il percorso di Granelli sia nel partito, nella Base e nelle Istituzioni.
Piero Bassetti in chiusura ha fatto presente che Luigi ha avuto il coraggio di essere spesso controcorrente, isolato ,quasi un perdente agli occhi della maggioranza del partito per portare avanti le proprie idee .

CONSULTA I DOCUMENTI ON LINE:

 PROGRAMMA

CRONACA

BASSANI

BASSETTI

BODINI

BORGHETTI

CANTU'

CAPUTO

CARTOTTO

CHIAPPA

FARINONE

FOSSATI

GATTI

LA PIRA

NUOVA SEDE

MAININI

MAURI BREVE STORIA

MAURI MESSAGGI IN BOTTIGLIA

STINA

8 MAGGIO 2019: 20° ANNIVERSARIO DELLA SCOMPARSA DI LUIGI GRANELLI

Agli amici basisti del Centro Studi

 

Grande giornata ieri all’istituto Sturzo di Roma per commemorare il ventesimo anniversario della scomparsa di Luigi Granelli alla presenza del Capo dello Stato Mattarella numerosi politici e amici. Ha concluso Pier Luigi Castagnetti. La famiglia ha promosso la pubblicazione di una monografia su alcuni degli scritti più interessanti di Luigi. Un doveroso omaggio ad un grande amico ,un maestro politico, l’animatore e cofondatore della Base. Prima della fine anno lo ricorderemo anche a Milano.

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Potete ascoltare l'intervento integrale cliccando qui:


https://www.radioradicale.it/scheda/572979

 

Potete vedere il video cliccando qui o visitando la nostra mediateca:

 

https://www.youtube.com/watch?v=NvKj-iDupLw&feature=youtu.be

Cerimonia di canonizzazione di Papa Montini

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Con Paolo VI negli anni 70. Foto tratta da "Un libro di ricordi" di Luigi Granelli.

 

Cari amici,

nel prossimo ottobre avverrà la cerimonia di canonizzazione di Papa Montini.

Come sapete, da arcivescovo di Milano dal 1954 al 1963, Montini ebbe relazioni con la Base ed i suoi personaggi non facili e non semplici.Uno squarcio della situazioni e della sovrastante cornice politica ci viene fornita con magistrale capacità da Mario Mauri, che ha vissuto quei tempi.

A meglio intendere l'atmosfera dell'epoca, vi invito a leggere un articolo del Corriere della Sera del 23 settembre 2004 (lettera di Montini a mons Dell’Acqua).

Nel ringraziare Mario pubblicamente per il suo interessante contributo, vi invito a leggerlo.

 

Mario Mauri su canonizzazione Montini

La canonizzazione di Giovanni Battista Montini suscita particolari emozioni in coloro che a metà degli anni cinquanta del secolo scorso vissero l'episcopato ambrosiano del futuro Paolo VI (chiamato a succedere, nel 1954, al cardinale Schuster) con molta ammirazione per il complesso della sua azione pastorale, ma anche con qualche difficoltà di comunicazione e comprensione su temi dell' attualità politica del tempo.

Quelli che si riconoscevano nella sinistra cattolico democratica ammirarono molto i primi gesti del nuovo successore di Sant'Ambrogio, la finezza e la modernità culturale dei suoi messaggi e della sue omelie e parteciparono con entusiasmo a quello storico avvenimento che fu la Missione di Milano. Di quella iniziativa pastorale si ricordano in particolare le aperture delle Chiese e dei luoghi di lavoro nella pausa meridiana a intensi momenti di riflessione a cui parteciparono migliaia di milanesi a cui parlarono lo stesso mons. Montini e tra gli altri don Mazzolari, padre Turoldo, Lazzati: sembrò in qualche modo materializzarsi la definizione (allora frequente nella comunicazione giornalistica) di Montini "arcivescovo dei lavoratori".

Nella DC molti evocavano la cultura familiare del presule, figlio e fratello di parlamentari del partito di ispirazione cristiana e quindi una naturale propensione a valutare anche in chiave politica relazioni di carattere sociale e problemi di qualificazione ideologica e culturale. Tutti sapevano della alternativa in Vaticano, rappresentata da Montini, rispetto a personalità definite conservatrici come i cardinali Ottaviani e Pizzardo e molto si disse del favore con cui l'arcivescovo di Milano guardava al conferimento di una laurea honoris causa a
Jacques Maritain, maitre à penser della sinistra cattolico democratica, da parte dell' Università Cattolica.

Il progetto di questo riconoscimento fu bloccato da un intervento romano, appunto. L’arcivescovo contrastò di lì a qualche anno il disegno di una alleanza politica tra democratici cristiani e socialisti e fu quello il momento di difficoltà nei rapporti tra quella parte della DC più orientata a sinistra, rappresentata in particolare dalla corrente di Base, e gli orientamenti manifestati da mons. Montini. Di tale dissenso
scrissero il successore dell'arcivescovo, il cardinale Colombo e importanti studiose come Maria Chiara Mattesini e Eliana Versace, ma la stessa sostanza delle cose dette e scritte allora dal presule e i comportamenti e i giudizi in seguito assunti da Paolo VI dimostrarono che il dissenso non era sulle strategie di rinnovamento a cui i cattolici democratici erano chiamati ma sulle scelte politiche particolari e sui tempi
in cui compierle.

Furono certo momenti difficili per molti di noi: le critiche alle nostre scelte venivano da una fonte di grande autorevolezza e furono strumentalizzate anche in sede elettorale per quanto riguardava il voto dei cattolici. Ma in definitiva l' arcivescovo della missione di Milano diventò il Papa della Populorum Progressio che riconosceva il diritto di ribellarsi ai regimi contrari alle speranze di progresso sociale e di libertà. Questa parte del magistero di Papa Montini fu al centro di critiche della parte conservatrice della gerarchia ecclesiale quando Camillo Torres, antesignano della teologia della liberazione, andò a morire in Bolivia ribellandosi a un regime politico oppressivo.

Questo ricordo ci è caro e commovente nel momento in cui partecipiamo alla festa della Chiesa per il nuovo Santo.

 

Una mia riflessione sul momento attuale Di Gianni Mainini

 

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Nasce il governo di contratto.

Sono contento di aver portato al governo il nostro programma(Di Maio) Niente di nuovo sotto il sole.

Nel luglio 1987 Giovanni Goria diede vita al "governo di programma" per l'azione di guida risoluta e reiterata del presidente Cossiga con lo scopo di mitigare i contrapposti protagonismi di De Mita e Craxi. Ebbe una vita travagliata eduro' poco,fino alla primavera 1988. Lo ricordo nel febbraio al cinema Brera ad Inveruno per il premio Marcora in una platea stracolma che gli osannava"resisti". Un saluto deferente e pieno di nostalgia ad un grande personaggio ed al suo grande maestro Giovanni Marcora.

23 febbraio 2018: 98° compleanno di Giuseppina Marcora

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Carissimi,

Facciamo gli auguri a Giuseppina Marcora, staffetta partigiana, sorella di Albertino, per i suoi importanti 98 anni.

E’ un monumento vivente di storia e di memoria, e per quanto ci riguarda di affetti.

A nome personale e del Raggruppamento Divisioni Patrioti Alfredo Di Dio formulo tanti cari auguri.

Con ammirazione mi sono permesso di tracciare una breve traccia della sua persona, ma occorrerebbe scrivere almeno uno o più libri.

Potete trovare il profilo completo qui.

Gianni Mainini

“Se chiudi ti compro” omaggio ad Albertino Marcora

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Venerdì 10 novembre 2017, alle 21.00, nella sede del Circolo Culturale San Giuseppe di via Buonarroti a Busto Garolfo, è stato presentato il libro "Se chiudi ti compero - Le imprese rigenerate dai lavoratori".

L’evento è stato organizzato dal Cento Studi Albertino Marcora di Inveruno in collaborazione con la Guerini Associati che ha dato alle stampe il volume e al Circolo cuturale San Giuseppe di Busto Garolfo.

Marcora, fondò la cosiddetta corrente di ‘base’ e fu per due volte nominato Ministro (nel 1974 e successivamente nel 1981).

Stimato in Europa per impegno e concretezza a lui si deve la legge che consente ai medesimi dipendenti di acquistare l’azienda in cui lavorano in caso di fallimento.

Grazie a questa legge sono stati salvati oltre 14 mila posti di lavoro. Nel libro si parla, appunto, della legge n.49 del 1983 – che venne operativa dall’anno successivo – conosciuta ancora oggi come ‘legge Marcora’.

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