Partito democratico. Una riflessione sul passato per poter guardare al futuro
L’elezione di Enrico Letta alla segreteria nazionale del Partito Democratico è una buona notizia. Per la sua caratura intellettuale e professionale, per la sua esperienza politica e, ancor più, per il suo tratto personale che molti di noi hanno nel tempo avuto modo di apprezzare.
Il modo migliore, più serio, per cercare di dargli una mano nel tentativo – complicato – di salvare e poi rilanciare il Pd non consiste né in una superficiale sottovalutazione dei problemi insiti nella terribile dichiarazione d’impotenza sottoscritta dall’ex segretario Zingaretti né in quel fastidioso coro unanime di peana rivolto al neosegretario, tanto più ipocrita quanto più espresso da personaggi poco credibili, alcuni impegnati sino al giorno prima in una estenuante guerriglia interna per bande e altri usi a blandire il leader di turno salvo poi passare con disinvoltura al successivo.
Il modo migliore, come sempre dovrebbe essere, ma come assolutamente è indispensabile nei momenti di svolta, decisivi per il proprio futuro, è quello di evidenziare i malfunzionamenti, gli errori, i problemi al fine di superarli per poter poi impostare la nuova fase. Certo, esporre in questo modo le questioni è un modo per affermare le proprie idee, la propria visione e così facendo si corre il rischio di venire sconfitti politicamente da chi ha altre idee, altre visioni: ma è esattamente questo il succo del confronto democratico, anche di quello interno ad un partito.
Il dibattito sull’identità – quello che purtroppo il Pd ha subito accantonato immaginando se ne potesse fare a meno temendo che un suo eventuale sviluppo ne avrebbe fatto saltare l’intero impianto, col risultato di trovarselo ancora lì, irrisolto a oltre 13 anni dalla propria fondazione – consente di comprendere se, avendo una visione di fondo comune, le differenze interne sono sulle “politiche” e quindi componibili attraverso positive mediazioni oppure di comprendere che la visione culturale e politica è troppo diversa fra le varie “anime” del partito e quindi di prenderne atto conseguentemente. Motivate così, anche le scissioni e le eventuali successive collaborazioni fra organizzazioni diverse aggregate in un comune “campo” politico hanno un significato, un senso politico. Esattamente il contrario, dunque, delle due scissioni che il Pd ha subìto in questi suoi pochi anni d’esistenza.
Per inciso, questa valutazione consente altresì di precisare qualcosa al riguardo dell’accusato numero uno dei problemi del Pd: il “correntismo”. Come se, rimosse le correnti, ogni difficoltà verrà meno. Non è così. In un partito largo e plurale come dev’essere il Partito democratico (altrimenti ne verrebbe meno la sua stessa ragion d’essere) una discreta differenziazione interna è fisiologica e pure necessaria. Quindi le “correnti”, io continuerei a chiamarle così, sono inevitabili. E anche utili, se organizzate in modo da essere momento di elaborazione politico-programmatica e di selezione qualitativa di dirigenza politica o di competenze tecniche che vengono poi convogliate nell’insieme del partito. Dove si opereranno le necessarie sintesi, le scelte ultime. In genere al riguardo si cita la Democrazia Cristiana. Ebbene, è esattamente questo che avveniva, producendo personale politico di elevato livello. Sino a quando il meccanismo si è inceppato e il tutto è degenerato. Il correntismo privo di idee e unicamente teso alla gestione del potere esploso negli anni ottanta ha condotto quel partito – unitamente ad altre questioni – alla sua fine. Ora, il punto è che nel Pd la fase creativa e propositiva delle correnti non c’è mai stata, e invece avrebbe dovuto esserci e sarebbe stata utilissima per affinare le coordinate del partito, per definire meglio quanto non si era potuto/voluto fare all’atto della sua nascita, per far fruttare al meglio il pluralismo delle idee, dei contributi, delle intelligenze. Tutto ciò naturalmente è possibile solo se quella “visione comune” di cui s’è detto esiste davvero. Ma questo lavoro aiuta a capire se essa c’è. E se c’è il pluralismo l’arricchisce e non la indebolisce affatto.
Ora, nel Pd c’è stato subito il correntismo, in luogo delle correnti di idee. Questo è il punto. Correntismo per dividersi i posti nelle liste bloccate per il Parlamento, ad esempio. E quando si è pensato di abolirlo, peraltro non riuscendovi, si è immaginata una soluzione leaderistica, verticistica totalmente altra rispetto all’impostazione plurale e territoriale che un partito come il Pd dovrebbe avere.
Le osservazioni che seguiranno vogliono pertanto offrire un contributo di chiarezza, verrebbe da dire “di verità” se non si rischiasse così affermando di voler evocare il neosegretario, in relazione ad alcuni aspetti di fondo che ineriscono, in particolare anche se non solo, il ruolo e lo spazio del cattolicesimo democratico e popolare nel Pd. Un tema che è stato ormai accantonato da molti fra gli stessi interessati, e che da altri è ritenuto fastidioso, superato, inutile ma che al contrario è – per lo meno a mio avviso – decisivo nella logica plurale che dovrebbe sorreggere il partito.
Anche partendo da qui, da questo tema forse per molti “scomodo” si può provare a svolgere qualche riflessione che aiuti a porci qualche domanda, a valutare con oggettività i problemi sorti e le contraddizioni emerse. Solo, io credo, un’analisi accurata e onesta intellettualmente di cosa è stato il Pd in questi anni può aiutarci a comprendere come aiutarlo, se possibile, a riprendersi dallo stato di crisi acuta nelle quale versa e a rilanciarsi. Il silenzio, il non voler vedere le cose, il rimanere nel solo ambito della politica amministrativa (fondamentale, peraltro, perché lì almeno si aiuta il prossimo davvero) senza però occuparsi anche della politica più complessiva (magari perché la si considera un orpello inutile, politologia) non aiutano nella ricerca di una ripresa e anzi sono la causa della deriva sbagliata presa ormai da troppo tempo.
Una riflessione dunque essenziale, e che quindi non va sviluppata con timidezza. Forse è tardi, ma la segreteria di Enrico Letta può far sperare che vi sia ancora un margine temporale e non solo. Quindi un po’ di ottimismo per il domani, però senza sconti su quello che è avvenuto sin qui. Del resto, è solo conoscendo il passato, e riflettendo su di esso, che si può interpretare il presente. Per immaginare il futuro. L’ignoranza di ciò che è avvenuto prima non è ammessa, per chi vuole costruire quello che avverrà dopo.
Bisogna inoltre aggiungere, in conclusione di questa premessa che in sé è già parte del ragionamento che voglio qui sviluppare, che vi sono momenti nei quali, anche in tempi ormai dominati dalla ossessione per l’immediatezza del pensiero governata dai social media, una riflessione “vecchio stile” non solo può rivelarsi utile ma addirittura indispensabile. Il periodo sospeso e alquanto angoscioso che stiamo tutti vivendo dovrebbe peraltro aiutare ciascuno di noi nell’esercizio auspicato. Per un attimo abbandoniamo dunque i social e il loro stile comunicativo – affermazione in tre righe più foto, risposta immediata e spesso non pensata – e immergiamoci con la necessaria calma dentro un problema, per riflettere intorno ad esso al solo fine di approfondire o sviluppare i nostri pensieri. Sapendo che, poi, una eventuale azione potrà originare da essi o prevalentemente da essi.
Il tema sul quale voglio invitare alla riflessione riguarda il futuro prossimo del Partito democratico e il ruolo che i cattolici democratici che ad esso hanno a suo tempo aderito possono (o al contrario non sono più in grado di) assumere. Questione che ormai interessa pochissimi ma che invece avrà un suo significativo rilievo nel rimodellamento della politica italiana che l’esito della pandemia e l’azione del governo Draghi io credo determineranno. Un po’ come accadde negli anni novanta dopo lo scandalo Tangentopoli.
L’analisi – in ogni caso qui ridotta all’essenziale, non esaustiva e meritevole di ulteriore sviluppo – vuole semplicemente suggerire alcuni spunti per una discussione ed una riflessione che possano svilupparsi durante l’anno in corso, e magari generare una qualche iniziativa. Il tentativo, inoltre, è di analizzare oggettivamente la situazione, cercando di non farsi coinvolgere da qualsivoglia sentimento di tifoseria. L’obiettivo non è ricevere qualche “like”, bensì stimolare qualche riflessione. E’ bene ribadirlo. Una riflessione rivolta – desidero sottolinearlo – in modo particolare, anche se non solo, ad alcuni: cattolici democratici e popolari che hanno aderito al Pd e in esso sono rimasti, che hanno aderito e poi se ne sono andati, che non hanno mai aderito in quanto non convinti ma non per questo non interessati. Sapendo – pure questo è meglio chiarirlo da subito – che un nuovo partito “dei cattolici” o “di ispirazione cristiana” non è oggi proponibile (e neppure auspicabile), e soprattutto non è realizzabile in una società fortissimamente laicizzata e in un contesto anche ecclesiale ormai profondamente mutato rispetto al passato, oltre che discretamente in crisi. Diverso invece è lo scenario politico, prossimo come detto ad un probabile rilevante cambiamento: ma questo potrà essere l’oggetto di un successivo momento di analisi se gli avvenimenti dei prossimi mesi ne determineranno la necessità. Rimaniamo dunque al tema qui proposto e prepariamoci ad affrontarlo per sommi gradi.
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Frutto della lunga incubazione avvenuta durante gli anni dell’Ulivo, il Pd nasce intorno a due principali assi portanti di natura politica e su un cardine di natura, per così dire, ideale.
Cominciamo da quest’ultimo, ovvero l’integrazione fra cultura e storia post-comunista e socialista e cultura e storia cattolico democratica e sociale in un Paese che lungo tutto il periodo della Guerra Fredda era stato ideologicamente e politicamente profondamente diviso a livello non solo di ceti intellettuali ma anche e soprattutto di opinione pubblica. Qui purtroppo le cose non sono andate bene. La questione merita molto spazio e molto approfondimento. Personalmente mi propongo di affrontarla meglio, in un prossimo futuro, a cominciare dal perché venne velocemente accantonato quel “Manifesto dei Valori” cui avevano lavorato Alfredo Reichlin e il prof. Mauro Ceruti: un documento certamente non perfetto che resta però il punto più alto di elaborazione concettuale sul fronte dell’integrazione culturale. Qui però mi devo limitare a rilevare che, a oltre dieci anni dalla sua fondazione, nel Pd la componente cattolico-democratica è marginale.
Di più. Non appena si fa cenno al punto immediatamente si è accusati di porre un tema ormai superato, che non c’è più. Ed è vero! Quello che però non si dice è che le regole d’ingaggio del nuovo partito (“il partito del XXI° secolo”) prevedevano proprio quella integrazione culturale che non c’è stata (e che forse era impossibile, un’illusione di stampo illuminista). E’ vero perché i “nativi” del Pd, diciamo press’a poco dai trentacinquenni in giù, non sono interessati all’argomento, hanno un’idea del Pd prevalentemente come partito dei “diritti”, non hanno – in larga misura – un taglio culturale “cattolico democratico/popolare”, si sentono “di sinistra” ancorché vagamente, senza voler andare sino in fondo nel contestualizzare questa affermazione. Ed è vero altresì perché la gran parte degli ex di origine Popolare hanno progressivamente perduto la volontà e finanche l’interesse nel cercare di far garantire pari dignità alla loro cultura politica all’interno del partito. A volte, per motivi di basso profilo. Spesso, per ragioni di stanchezza legate al procedere inesorabile del tempo e quindi dell’età anagrafica e anche ai troppi repentini mutamenti intervenuti in un arco temporale assai ristretto: dal 1994 al 2007, se ci pensiamo bene, dunque in soli 13 anni abbiamo assistito e ci siamo trovati attivamente coinvolti in una sequenza davvero ragguardevole, iniziata con la fine della DC, proseguita con la scissione dei Popolari, con la costituzione della Margherita e infine con quella del Pd. Molti che erano insieme, ancorché divisi in correnti, si sono trovati su fronti contrapposti nel bipolarismo della c.d. Seconda Repubblica.
Mentre dall’altra parte, espunta una piccola frangia dispersasi nelle mille sigle della Sinistra oggi genericamente definita “radicale”, il grosso del “corpaccione” militante e dell’intellighentzia dirigente (e funzionariale) è rimasto insieme, transitando dal PCI al PdS, ai DS e finalmente al Pd. Che è stato, nel loro intimo, il nuovo volto, il nuovo nome del loro vecchio partito. Cosa che non è stata invece, correttamente, per alcun Popolare. Potrei fare numerosi esempi. Mi limito qui a invitare ciascuno di noi a far mente locale e a pensare a quanti fra i nuovi “amici/compagni” di partito ha nel tempo sentito parlare del Pd davvero come un “nuovo” partito, con radici profonde, certo, e da non dimenticare ma, in ogni caso, “nuovo” e non prosecuzione delle precedenti formazioni politiche. Pochi, se ci pensiamo bene, senza voler ingannare noi stessi.
C’è a questo proposito una cartina di tornasole che io ricordo spesso anche perché fu un punto di mio personale dissenso, nel partito, insieme a non troppi altri: l’adesione del Pd al Partito Socialista Europeo (PSE). Qualcuno dirà: ma la diede Renzi! Certo, ma Renzi – avendo in mente un suo partito personale non era interessato a questioni di sostanza politica che egli riteneva non rilevanti – utilizzò quella decisione in termini strumentali (e un po’ anche illuso di una possibile novelle vague europea della quale lui era uno dei leader: ricordate la foto alla Festa dell’Unità in camicia bianca con gli altri giovani capi dei partiti socialisti?). Mentre quell’approdo era dato per scontato da dirigenti e militanti ex DS, e la mediazione cui era arrivato Franceschini durante la sua breve segreteria (la costituzione del Gruppo Socialisti & Democratici al Parlamento Europeo) era ritenuta un semplice passo nella direzione voluta, appunto l’entrata a pieno titolo nel PSE. Trincerandosi dietro alla necessità di far parte di un Gruppo al PE senza avere la possibilità di costituirne uno Democratico autonomo (a causa del Regolamento in vigore a Strasburgo, che richiede un numero minimo di deputati di un numero minimo di Paesi) si è rinunciato a qualsiasi ragionamento, a qualsiasi discussione, a qualsiasi valutazione altra. Così facendo, però, si è – nel fondo – scelta una parte e una solo delle due principali, (senza contare le altre minori ma non per questo meno importanti) che avevano definito il patto fondativo che aveva dato vita al partito. Non fu dunque una scelta di secondaria importanza, o un mero tatticismo utile a favorire il conseguimento di altri risultati (come probabilmente pensava Renzi).
Un ulteriore errore, sul piano in questo caso soprattutto simbolico, Renzi-segretario lo fece quando ridenominò “dell’Unità” le “Feste Democratiche”. Ne fece una questione di brand, uno noto e consolidato e l’altro no. Ma la politica non si può ridurre a campagna pubblicitaria, a prodotto da vendere, a immagine. Il cambio di denominazione della Festa – ai tempi ancora abbastanza diffusa sui territori – testimoniava invece visivamente l’avvento di un “nuovo” partito, che prendeva in eredità una tradizione importante e rispettata e la riformulava nella denominazione così come era accaduto al partito medesimo. Fra l’altro, quasi ovunque in Italia (a Roma, però, no) il cambio di nome era stato adottato, a volte con qualche difficoltà a volte meno. Il ritorno della “Festa dell’Unità” rimarcò la preminenza anche “culturale” oltre che simbolica della componente ex comunista nel nuovo partito. Che però, così, era assai meno “nuovo”.
Renzi pensava di incarnare lui medesimo la novità, corroborata da quella famosa “rottamazione” che era stata la sua parola-magica vincente all’insegna dell’accarezzamento di una vena antipolitica che stava rafforzandosi nel Paese come esito dell’accusa alla “casta” e delle difficoltà economiche e sociali generate dalla crisi finanziaria globale del 2007/2008. Ma un partito non può mai risolversi in una persona sola, per quanto valida ed efficace mediaticamente. A meno che si tratti di un “partito personale”, in questi casi però sempre destinato a non sopravvivere al tramonto politico del suo ideatore e frontman. Cosa che il Pd, non foss’altro per la solidità delle sue culture politiche fondative, non avrebbe mai potuto divenire.
E infatti così non fu, neppure quando (dopo la brillante vittoria alle elezioni europee del 2014) si iniziò a parlare del PdR, il “Partito di Renzi” come del possibile “partito della nazione”. La reductio ad unum della pluralità insita nel Pd non avrebbe mai potuto avverarsi se non nella gestione di quote-parte del potere, nella gestione delle direzioni-senza-dibattito reale nel partito, nella composizione di buona parte delle liste elettorali. Il rafforzamento del correntismo esasperato e unicamente teso a combattere per i posti piuttosto che per le idee fu anche una reazione all’identificazione del partito con una persona sola. Ma, attenzione: la sua radicalizzazione intervenne su una struttura correntizia già esistente che solo in parte e solo per un certo periodo di tempo aveva svolto la sua funzione più utile, quella di elaborazione politica, presto abbandonata per una più prosaica attività di lobbismo interno.
Il risultato di tutto ciò è che la confusione valoriale nel Pd è cresciuta a dismisura. E la componente culturale cattolico democratica è in esso oggi marginale, non solo minoritaria. Subito qualcuno interverrebbe alzando il sopracciglio per contestare questa affermazione, prontamente elencando i nomi di vertice, da Letta in giù, di ex Popolari che hanno ruoli importanti nel Pd e nelle istituzioni, a cominciare da quella più importante. Il tema è serio e richiede qualche puntualizzazione e nessuna semplificazione. Perché il punto non è tanto avere delle posizioni pro-tempore occupate da persone che provengono dal tuo stesso filone culturale. Il punto decisivo è quanto si incide sull’humus valoriale, e poi politico, di un partito. Ed è qui che la debolezza, spesso l’assenza, la carenza dei cattolici democratici si avverte nel Pd.
Un esempio: con ironia malcelata si è detto che il Pd è il “partito della ZTL”. Forte nei centri città, debole nelle periferie. Non è così in toto, naturalmente. Però un po’ sì. Un po’ tanto. Molti, troppi voti popolari lo hanno abbandonato. L’allontanamento del ceto medio e medio-basso è il frutto, in buona misura, di quella rincorsa a seguire idee e temi fissi di una certa sinistra snob attenta alle questioni post-materialiste non avendo certo bisogno di confrontarsi con la spesso dura realtà del vissuto quotidiano dei ceti meno abbienti i quali, con la crisi economica, si sono estesi ad ampie fasce del ceto medio. Il Pd si è concentrato sui diritti civili, ha lasciato in secondo piano i diritti sociali. Importanti i primi, ma fondamentali i secondi per la gran parte della popolazione. E in particolar modo per la fascia più periferica, più umile della società italiana. Qui sono mancati i cattolici democratici del Pd. Perché per l’attenzione al sociale che contraddistingue da sempre il cattolicesimo italiano essi avrebbero dovuto richiamare con energia (con tutta l’energia disponibile) la componente proveniente dalla sinistra a ricordarsi delle sue origini e a non farsi irretire dal salottismo di successo, dal larvato imborghesimento che conduce a voler “piacere alla gente che piace”. Ma c’è di più.
Ezio Mauro, già direttore de la Repubblica, possiede una qualità letteraria notevole che si articola attraverso una prosa sofisticata e affascinante senza nulla perdere quanto a chiarezza giornalistica e sostanza concettuale. Egli può ben essere preso a riferimento – in virtù appunto del suo elevato livello compositivo – di quella ormai infinita e pressoché univoca schiera di opinionisti, semplici commentatori o più fini intellettuali, che considerano il Pd (e probabilmente hanno sempre considerato) una semplice emanazione della secolare storia della Sinistra italiana. Quella avviata a Livorno giusto cento anni orsono. Un percorso durato oltre una dozzina di lustri sotto la gloriosa insegna del PCI e poi proseguito con due sigle minori, PdS e DS, sino ad approdare a quella attuale, appunto il Pd.
In uno dei suoi ultimi editoriali (la Repubblica, 8 marzo, “Il Pd e il suo labirinto”), alle prese con l’ennesima crisi di vertice di un partito sorto solo poco più di tredici anni fa, l’illustre giornalista per un breve momento ha un sussulto e si domanda se il Pd sia “l’esito finale di una lunga storia” o piuttosto “l’inizio di una nuova avventura”. Ma dopo aver convenuto che quel partito sorge con l’idea d’essere “punto di riferimento di storie diverse, dai cattolici democratici ai laici repubblicani” subito si premura di precisare che costoro “scelgono di accompagnare il cammino della Sinistra, ibridandola e arricchendola”. Una funzione ancillare, dunque. Di supporto, magari di qualità, ma pur sempre di mero sostegno ad una forza principale. Fra l’altro, e la cosa fa quasi sorridere se non fosse tremendamente seria, ponendo “vocazione europea” e “collocazione occidentale” quali coordinate essenziali del partito: ovvero la più nitida testimonianza di quanto storicamente avvenuto, e cioè il cambiamento strutturale di posizione politica e geopolitica effettuato proprio dalla Sinistra già comunista in seguito alla sconfitta del modello sovietico e in virtù delle buone ragioni di chi in Italia a quel modello si era opposto, optando con decisione per quello incarnato dalle democrazie occidentali. Ciò nondimeno Mauro non immagina “una neutralizzazione del carattere di sinistra del Pd a favore dell’indistinto democratico, bensì una declinazione libera e moderna di quell’identità”.
Questa riduzione di fatto del Pd da partito del Centrosinistra unito a partito della Sinistra tout court, erede di una tradizione che, almeno sotto il profilo della politica estera, è stata opposta a quella risultata storicamente vincente è un’operazione intellettuale che stravolge l’idea fondativa del Pd e che dunque è inaccettabile. Ed invece è ormai divenuta opinione comune, neppure più contestata da alcuno. Basta ascoltare un qualsiasi talk show televisivo, non c’è nemmeno bisogno di avventurarsi in letture più impegnative, in interviste pensose o quant’altro. E’ sufficiente ascoltare una qualunque domanda sul “futuro della Sinistra” fatta da un qualsiasi giornalista. Che tutto ciò sia accaduto, durante questi anni di vita del Partito democratico, nel silenzio quasi assoluto dei cattolici democratici (accusati anzi, nella loro veste di “ex democristiani”, d’essersi impadroniti di quasi tutte le leve di potere del partito) è francamente sconfortante.
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Quanto detto sin qui è importante, molto importante, rispetto al tema su quale sia l’anima del Partito democratico. La questione identitaria è basilare per una forza politica: quindi va ripresa con serietà. Non è tempo perso, come taluno dispregiativamente ritiene. Temo però non avverrà, ma in questo caso i suoi problemi di fondo il Pd non li risolverà. Vi sono comunque altri punti che in qualche modo erano stati posti fra gli aspetti fondamentali del partito; e allora, sempre al fine di immaginare un futuro possibile cercando di non ripetere errori compiuti nel passato, è bene riandare allo sviluppo storico dei principali fra essi: la “vocazione maggioritaria” e le “Primarie”. A seguire occorrerà far cenno ad un classico della politica, la questione delle alleanze: un terreno sul quale Enrico Letta si è avventurato subito, e con piena ragione in quanto la pretesa maggioritaria del Pd oggi è palesemente irrealizzabile e quindi, se la si vuole mantenere quale riferimento di fondo, la si deve interpretare e declinare in maniera completamente nuova. Ma come? Ricordare, sia pure per sommi capi, come è andata sin qui può aiutare a trovare una risposta.
Cito Bettini, l’ideologo del Pd zingarettiano che però interpretava un ruolo analogo (che credo nessuno gli abbia mai assegnato, né allora né ora) ai tempi della sua nascita, che in diverse interviste (qui, a la Stampa, 27 dicembre 2020) ha giudicato ormai superata la vocazione maggioritaria: “fu una ispirazione generosa, appassionata, allora realistica. Veltroni la interpretò in modo straordinario. Fu tra gli ultimi aneliti di una politica civile, fondata su una visione e su una proposta. Intimamente antipopulista. E’ durata poco, per le precoci dimissioni del segretario. Pretendere che il Pd rilanci questa ambizione oggi sarebbe presuntuoso e arrogante. Ci isolerebbe, come è accaduto nelle ultime elezioni politiche, nelle quali parte del nostro popolo si è riparato sotto altre bandiere; persino quelle di destra. Il proporzionale, al contrario, potrebbe favorire maggiormente il radicamento di ogni forza democratica e la pazienza e l’umiltà unitaria verso gli altri”.
Questa non è una valutazione da poco, in quanto azzera una delle motivazioni di base della scelta di dar vita al Pd. Al punto che oggi Letta la accantona, ma per farlo deve, inevitabilmente, rilanciare il maggioritario e provare a rinverdire l’Ulivo, ovviamente aggiornato, riveduto e corretto. Ma ci arriveremo. Ora ripercorriamo per un momento il cammino avviato a suo tempo, oggi stroncato da Bettini. L’incontro fra le culture politiche popolari che avevano caratterizzato la Prima Repubblica era la ragione per così dire “ideale” del Pd. Lo sviluppo in partito dell’alleanza dell’Ulivo era quella “organizzativa”. La vocazione maggioritaria era la derivazione diciamo “motivazionale” dell’impianto elettorale maggioritario e non più proporzionale e ancor più dell’assunto bipolare, per cui lo scontro tra due fronti – centrodestra e centrosinistra – e tra due leader – Berlusconi e Prodi – avrebbe dovuto riformularsi, all’americana, tra due partiti, Forza Italia o una sua eventuale nuova denominazione, che infatti arriverà, e appunto Partito democratico. Poiché le cose però non sono mai così semplici, lo stesso Veltroni fu il primo a “correggere” l’assunto di partenza facendo un’alleanza elettorale con i Radicali e con il partito personale dell’ex magistrato Antonio Di Pietro (una scelta che in Parlamento creò solo problemi al Pd senza risultare utile ai fini della vittoria elettorale). Il risultato ottenuto nelle elezioni del 2008 fu molto buono, superiore al 30% ma assai lontano dal 51%. Esso fu determinante per lo sviluppo, rapido, degli eventi successivi: il colpo d’ala della bellissima e imponente manifestazione al Circo Massimo, l’attacco durissimo alla guida veltroniana condotto da quasi tutto il gruppo dirigente ex comunista guidato da D’Alema, il cui giudizio tranchant sull’idea stessa del Pd venne espresso nella direzione nazionale (“l’amalgama non riuscito”), le sconfitte elettorali in due regioni, l’arrendevolezza del segretario sfociata nelle sue improvvide e intempestive dimissioni.
Il tutto in un contesto generale di incipiente crisi finanziaria e poi economica, essa pure probabilmente una delle ragioni del fallimento dell’ambizioso progetto dem: perché il partito – occorre riconoscerlo – era sorto anche sull’onda di un ottimistico programma liberal – il discorso del Lingotto ne fu la celebrazione – che spingeva molto su un’idea di società nella quale prevaleva l’idea del “consumatore” rispetto a quella del “cittadino” (un approccio che era già stato della rutelliana Margherita che gli ex Popolari avevano fatto proprio o, tranne eccezioni, non avevano comunque contestato) in un tardo blairismo che la crisi innescata dai mutui subprime americani avrebbe travolto. Così che a nemmeno due anni dalla sua nascita il Pd aveva visto essere poste in dubbio tutte le ragioni che l’avevano determinata: quella “ideale” seppellita da D’Alema, quella “organizzativa” abbattuta dalla dichiarazione di sconfitta insita nelle dimissioni del segretario; quella “motivazionale” determinata dal raggiungimento di una percentuale elettorale largamente insufficiente per giustificarla (alle elezioni europee del 2009 Franceschini, segretario di transizione, fu bravo ad evitare la debacle da alcuni prevista, prendendo però circa dieci punti percentuali in meno rispetto all’anno precedente). Il terreno era dunque pronto per il ritorno della “Ditta”, e così fu con la vittoria di Bersani alle primarie contro lo stesso Franceschini.
Il Pd originario, probabilmente a questo punto velleitario, non c’era già più. Rutelli lo aveva intuito per primo e se ne andò immaginando di poter lucrare sulla disillusione di molti. Ma così non fu, perché il “momento-Margherita” si era concluso. Franceschini e Marini decisero nel giro di neppure un anno di accordarsi con Bersani e D’Alema: scelta di legittima realpolitik che avrebbe garantito qualche buona rendita di potere ma che impedì agli ex Popolari qualsiasi iniziativa volta a contrastare la torsione di 180° che la guida bersaniana fece fare al partito: lo spostamento verso una sinistra tradizionale anch’essa, come il suo opposto socialdemocratico, superata dai tempi; il rafforzamento del partito dei funzionari-politici secondo lo schema del PCI (burocrati cresciuti nelle stanze del partito in luogo di persone cresciute professionalmente nella società esterna alla politica e quindi maggiormente avvertite di quello che in essa si muove e cresce); il collateralismo con una CGIL incapace di comprendere il divario crescente fra lavoratori tutelati e lavoratori non tutelati; e, progressivamente, una qual certa tentazione – questa invece era una novità – ad accarezzare quella vena populista e antipolitica che si stava sviluppando sull’onda del “vaffa” grillino e della criminalizzazione della “casta” politica condotta dai principali gruppi editoriali: non comprendendo che così facendo si dava ragione ai contestatori, mentre si sarebbe dovuto procedere a riforme radicali, certamente, ma ribadendo l’importanza della politica, dei partiti, delle istituzioni della democrazia rappresentativa.
Scelte che saranno alla base della mancata vittoria del 2013. Della quale bisogna dire due cose. La prima è che essa fu pure il risultato del consenso che Bersani fu costretto – dal Presidente Napolitano in primis – a dare al governo Monti: non esistono controprove ma si deve ammettere che eventuali elezioni anticipate nella primavera 2012 non è detto che il Pd non le avrebbe vinte (anche se certo non stravinte). La seconda è che esse furono l’occasione per decimare la rappresentanza ex Popolare nei gruppi parlamentari. L’esito nel medio periodo della scelta – da me mai approvata e anzi contestata – di accordarsi con chi parlava del Pd come della “Ditta”, il simbolismo per dire che, di fatto, il Pd era la prosecuzione naturale del vecchio filone PCI-PdS-DS. Un errore fatale.
L’apparire sulla scena del ciclone Matteo Renzi, dopo l’umiliazione patita via streaming da Bersani nell’abortito tentativo di dialogo coi 5 Stelle e in contemporanea con il fallimentare tentativo di eleggere alla Presidenza della Repubblica prima Marini e poi Prodi, avrebbe forse potuto riportare il Pd sulla strada originaria se il sindaco di Firenze lo avesse voluto. Determinazione, energia, dialettica e capacità di tattica politica non difettavano. Con furbizia lisciava il pelo all’antipolitica imperniata sulla dura contestazione alla casta dei politici con il suo vocabolo-mantra, “rottamazione”. La provenienza dal mondo ex Popolare e la sua militanza rutelliana nella Margherita ne testimoniavano una non subordinazione alla Ditta dimostrata con forza alle Primarie per la sindacatura, nelle quali aveva abbattuto nella sua roccaforte la burocrazia locale ovvero l’apparato ex comunista. L’assalto alla segreteria si rivelò assai facile solo un anno dopo il precedente tentativo (ma in quel caso le Primarie erano state per la candidatura alla premiership e quindi fu logica la vittoria in esse di Bersani, segretario del partito principale della coalizione di centro-sinistra) ma invece di dedicarsi alla ridefinizione e alla riorganizzazione del partito Renzi decise di puntare da subito a quello che era il suo vero e unico obiettivo: Palazzo Chigi.
Uomo ambizioso e spregiudicato Renzi per forma mentis è una persona che vuole gestire il potere. Uomo d’azione, più che di pensiero. Di tattica più che di strategia. Di tempi immediati, non di orizzonti. Così per lui il partito è uno strumento nelle mani del leader il quale, in ossequio alle principali democrazie occidentali così come ad ogni autocrazia non occidentale, deve essere il capo del governo nonché l’unico conducàtor del partito medesimo. Dopo il Pd-Ditta ecco dunque il Pd-PdR, ulteriore stravolgimento dell’idea fondativa.
La vocazione maggioritaria in salsa renziana era dunque intesa in senso individualistico, incentrata sul profilo del leader. Unico e assoluto. Sul piano nazionale e internazionale. Mentre invece a livello locale si lasciavano andare le cose un po’ per conto loro: un sostegno al “capo” tanto non sarebbe mancato, posto che ovviamente la maggioranza del ceto politico preferisce stare con chi è vincente, e lo straordinario risultato elettorale alle europee del 2014 (in larga misura drogato da fattori che qui però non posso analizzare) era lì a dimostrare “chi” era il vincente.
Questa presunzione di potere quasi assoluto nel partito, declinata poi in maniera differente a seconda della personalità del leader di turno, deriva dall’altro elemento fondante del Pd, cui abbiamo già fatto cenno: le Primarie, ovvero l’elezione diretta del Segretario Nazionale (e per un certo periodo anche di quelli regionali) tramite una votazione popolare aperta a chiunque aderisca ad un manifesto alquanto generico di supporto alle idee del partito finanziando l’iniziativa con un modestissimo obolo. L’idea ai tempi rispecchiava – volendola giudicare benevolmente – l’apertura estrema alla società, ai cittadini tutti: cosa, di più, se non addirittura l’elezione del proprio leader posta nella disponibilità degli elettori, e non dei semplici iscritti? Volendo invece essere un po’ meno ottimisti, e soprattutto meno ingenui, essa era un tentativo di incamerare nella dinamica di partito un po’ di antipolitica senza subirne troppi guai. Intendiamoci: l’idea ha fruttato – nelle prime esperienze – bene, coinvolgendo effettivamente due-tre milioni di persone che hanno fatto la fila ai gazebo, versato il contributo, votato un candidato. Insomma, che hanno partecipato. Non si è trattato, dunque, di un’idea peregrina, a cominciare dal suo evocativo messaggio partecipativo. Quel successo di immagine, però, nascondeva alcuni problemi assai rilevanti che nel tempo si sono evidenziati indebolendo così, oltre che lo stesso partito, anche lo strumento in sé, talché le ultime edizioni (la seconda elezione di Renzi e poi quella di Zingaretti) hanno registrato un sensibile calo di partecipazione.
Le Primarie hanno incentrato tutto sul candidato. Si è sempre votato un nome, mai un preciso impegno programmatico. Certo, i programmi c’erano, i volantini pure e così i post sui social da quando questi ultimi sono arrivati. Ma la vera competizione è stata sempre e solo sui nomi. Sul nome del candidato e nemmeno su una sua eventuale squadra a supporto. E poi, competizione? Quale competizione? Non c’è stata una Primaria che una nella quale non si sapesse in partenza chi sarebbe stato il vincitore, e per di più con un margine netto. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. Le candidature di Bindi e Letta in contrapposizione a Veltroni furono un modo per crearsi una nicchia nel partito, spaccando così fin da subito gli ex Popolari come da tradizione: Franceschini e Marini, e molti altri, sostennero il vincitore, che venne votato da tutti gli ex DS (anche da quanti lo fecero solo in ossequio agli ordini ricevuti, pronti a mollarlo alla prima occasione utile). Lo scontro Bersani-Franceschini divise per un breve periodo ex DS ed ex Margherita ma in un modo assai soft, essendo scontato il risultato finale. Le Primarie Bersani-Renzi-Tabacci erano per la guida del centro-sinistra, non per quella del partito. Vengono ricordate per l’ottima performance renziana, ma pure in questo caso la vittoria del segretario del Pd era scontata. Quelle successive alla caduta di Bersani furono vinte nettamente da Renzi contro Cuperlo e Civati col concorso di larga fetta della base ex diessina, ammaliata dalla brillante oratoria del sindaco di Firenze, suggestionata da quel poco o tanto di sentimento anticasta penetrato pure in essa ed elevato a slogan col mantra della “rottamazione” e del conseguente ricambio generazionale, delusa e stanca dalle ripetute sconfitte elettorali. Primarie più interessanti, queste, e infatti generarono un cambiamento notevole nel partito. Ma pure queste dal risultato scontato. E in ogni caso le ultime di un certo rilievo. Quelle della rielezione di Renzi dopo la sconfitta referendaria, contro Martina (un’opposizione peraltro non solo garbata dovuta ai modi gentili della persona ma anche assai pallida nei confronti del suo ex Presidente del Consiglio che lo aveva fatto Ministro) e Orlando (erede non particolarmente carismatico della tradizione di sinistra) furono assolutamente inutili, poco vissute e vinte dal segretario uscente senza alcuna difficoltà. Furono anche la dimostrazione evidente che lo strumento non appassionava più. Infine le ultime: una competizione anche in questo caso alquanto stanca e moscia vinta senza patemi da Zingaretti in un partito tramortito dalla severa sconfitta subìta alle elezioni politiche del 2018.
Le Primarie hanno svalutato l’appartenenza, dimostrata attraverso il tesseramento, al partito. Intendiamoci: il partito di quadri-militanti, spesso col tempo rinchiusosi al proprio interno espungendo chiunque volesse conquistarlo, dall’esterno, dalla società, non esiste più da tempo. E i vari tentativi ideati per rinnovarlo e aggiornarlo (circoli tematici, sezioni presso ambienti lavorativi, assemblee degli esterni e quant’altro) non hanno mai – in qualunque formazione politica – funzionato. Quindi il problema della mancata rappresentazione sociale (che invece nei vecchi partiti popolari del secolo scorso c’era, eccome se c’era) è reale. Ma non è stato risolto dalle Primarie. Che al tempo stesso hanno indebolito e, diciamolo pure, un po’ anche immalinconito il socio, il tesserato, colui il quale vuole dare qualcosa di più al partito: certo, qui si parla del tesserato vero, non di quello meramente nominativo (un ulteriore problema ereditato dal passato). Anche se ormai acciaccata e probabilmente destinata ad essere superata, la tessera ha perso, con le Primarie, molto del suo residuo valore. E infatti il tesseramento si è definitivamente ridotto ad essere uno stanco rito più o meno annuale condotto con sempre minor entusiasmo da affaticati segretari di sezione.
Ma soprattutto le Primarie hanno contribuito in modo decisivo, io credo, ad annullare qualsiasi ricerca di senso, di identità al Pd. Riducendo il tutto ad una conta, e per di più effimera in quanto dal risultato scontato. E la questione non è secondaria, perché come si è visto quello che col tempo è mancato al Pd è un suo perché, una risposta convincente alla domanda “cosa propone il Pd”, in virtù di “quali idee di fondo”, di “quale idea di società”. Non avendo risposte precise a quelle domande, il Pd è stato progressivamente abbandonato da quei tanti italiani che pure in esso agli inizi avevano riposto una speranza, riducendone il consenso a poco più della stretta cerchia dei vecchi elettori della sinistra dc (e neppure tutti) e del PCI-PdS (e neppure tutti). Oltre a un po’ di giovani, ma non troppi.
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Le alleanze sono importanti. Sono un tratto distintivo non solo di una politica, bensì pure della propria identità. Salvo in periodi di straordinaria emergenza, quando occorre superare i recinti tradizionali nell’interesse nazionale. Questo è uno di quei momenti. Non durerà per sempre, fortunatamente. Altrimenti sarebbe un gran guaio. Allora parlando di alleanze bisogna proiettare lo sguardo un po’ in avanti. Diciamo al 2022 o magari, proviamo, all’autunno di quest’anno. Posto che col 20% attribuito al Pd dai sondaggi (ma foss’anche il 25%) non è immaginabile conseguire una maggioranza parlamentare. Posto che l’attuale conformazione di quello che viene chiamato “centrodestra”, ma che in realtà da qualche anno è ormai un “destracentro” se non una destra tout court, è sondata intorno al 45-50% come può il Pd cercare di individuare un’alleanza che lo renda competitivo per la vittoria?
Il primo elemento sul quale ragionare è la legge elettorale. Da esso non si può prescindere. E qui c’è subito un problema. Perché al momento nessuno sa con quale legge elettorale si voterà alle prossime politiche. Questa, per inciso, è una delle anomalie italiane che va assolutamente superata. Non è possibile continuare a cambiare le regole del gioco in funzione della maggioranza parlamentare del momento. E’ quello che è accaduto negli ultimi vent’anni.
Bisognerà – a larghissima maggioranza – decidere se avere una legge elettorale maggioritaria (quanto, con quali correttivi sarà poi definito con la scrittura della norma) o al contrario proporzionale (anche qui, con gli opportuni correttivi quali ad esempio una soglia minima, da definire in corso di scrittura della legge). E, una volta approvata a grande maggioranza, non toccarla più per molto tempo. Come è nelle altre democrazie. Compito difficile, ma indispensabile.
In linea teorica il periodo del governo Draghi dovrebbe essere utilizzato dal Parlamento soprattutto a questo fine. C’è purtroppo, però, da dubitarne in quanto le tattiche sono preferite alle strategie dall’attuale classe dirigente politica, palesemente di livello inferiore alla media che un Paese rilevante come l’Italia meriterebbe.
E così torniamo al punto di partenza. La situazione attuale. La legge esistente, il c.d. “Rosatellum”, con la quale si è votato nel 2018, è di impianto maggioritario (non è qui il caso di entrare nei dettagli). Durante l’anno del governo Conte 2 era parsa avanzare nell’opinione dei partiti l’idea di tornare a un proporzionale dotato di qualche correttivo. E’ ovvio, e facilmente comprensibile, che con la legge in vigore le alleanze necessariamente devono ruotare interno a schieramenti formati da pochi, principali, partiti (come poi essi definiscano le liste, includendo anche rappresentanti di altre, minori, formazioni politiche è affar loro). Invece, con un eventuale proporzionale le alleanze si farebbero fra più partiti, piccoli, piccolissimi, medi, e probabilmente ad elezioni avvenute e non prima. Ora, al di là delle preferenze (non è questo il tema di questo scritto, in questo momento) il problema non è di poco conto: sin quando non si saprà con certezza con quale legge si voterà nessun partito sarà sicuro al 100% di cosa poi effettivamente farà. Questa è la verità.
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Per concludere. Obiettivo dichiarato di Letta è vincere le prossime elezioni politiche alla testa di una coalizione guidata dal Partito democratico. Un partito e una coalizione aventi i giovani e le donne quali principali punti di riferimento e fonte d’ispirazione. Mi permetto di dire che non basta.
Occorrono almeno tre altre condizioni. La prima, come detto, è una legge elettorale di stampo maggioritario diversa da quella attualmente in vigore. E questo il segretario del Pd lo sa bene, tanto è vero che sta sondando il terreno per capire quante possibilità reali vi siano per un sistema a doppio turno con soglia al 3%, con vincitore al primo solo col superamento del 40% dei votanti (attenzione, non degli aventi diritto: quindi è un’asticella alta) e con ballottaggio fra le due coalizioni (o partiti) meglio piazzate al primo turno. Il premio al vincitore sarebbe il 55% dei seggi parlamentari, così da non consentirgli di eleggersi da solo il Capo dello Stato o di cambiare la Costituzione. Come si intuisce, non sarà facile “trovare la quadra” con tutti gli altri partiti.
Inoltre occorre, davvero, un programma che con rara intensità e discreta precisione proponga agli italiani uno sviluppo economico compatibile con una più equa ripartizione sociale della crescita, con una effettiva sostenibilità ambientale, con una gestione efficiente di uno Stato sociale da rinvigorire, ammodernandolo e rilanciandolo. Anche questo credo sia ben presente a Letta. Si tratta però di saperlo definire e poi declinare in un testo comprensibile ma non eccessivamente stilizzato, in quanto non esistono slogan sufficienti a spiegare come uscire da una situazione complessa. Perché la situazione, terminata la pandemia, si presenterà – con un debito pubblico esorbitante e un tasso di occupazione alquanto diminuito – per quello che già oggi è: molto difficile.
Ciò che conterà di più, però, ed è la terza condizione, sarà quella che oggi al Pd manca, o comunque non si vede per nulla: una tensione ideale per migliorare il vivere sociale. Non la si può costruire a tavolino. O c’è o non c’è. E se c’è lo si percepisce, anche da come i componenti del partito interagiscono fra loro e nei rapporti con gli altri: si capisce che fanno parte con convinzione di un’unica squadra impegnata per il bene collettivo. Questa tensione si genera perché si hanno dei valori comuni dai quali derivano obiettivi comuni. Tali da generare fiducia e speranza.
Solo così si potrà essere credibili in quell’esercizio di “prossimità” alla vita di tutti i giorni della gente comune che Enrico Letta vede giustamente come la cifra principale del proprio partito. Volendo osare, si potrebbe citare il “vivere con il popolo e per il popolo” di Jacques Maritain. Ma forse è troppo. Basterebbe, più modestamente, saper infondere negli altri la sensazione che si crede davvero in quello che si sta facendo, perché è parte del proprio modo di intendere la vita. Sarà possibile? Difficile a dirsi. Ma proprio questa è la prova decisiva. Per tutti.
Inclusi quei cattolici democratici che vogliono credere ancora nell’autenticità del progetto politico immaginato a suo tempo. La loro, la nostra, è una cultura che può offrire ancora molto ad una società che sta scoprendo, durante questi lunghi mesi così tristi e bui, quanto il valore della solidarietà diffusa possa migliorare la condizione esistenziale di ciascuno. Bisogna però avere la voglia, la determinazione per renderla, questa cultura così ricca e attuale, presente e non negletta nel Partito democratico. A livello di base, innanzitutto.
Il presente scritto vuole essere semplicemente, attraverso la pur sommaria riflessione su alcuni errori compiuti nel passato, uno stimolo per provare a ritrovare quella necessaria determinazione.
Enrico Farinone
Arcore, 7 aprile 2021